XXXVI.

Il decadentismo e la letteratura tra la fine dell’Ottocento e il Novecento

1. Il decadentismo

Verso la fine dell’Ottocento si apre in tutta l’Europa una lunga fase di crisi e di trasformazione culturale, spirituale, letteraria, che riflette e complica una crisi di fondo economico, sociale, politico e corrisponde alle inquietudini e contraddizioni della società borghese ottocentesca assillata dall’insorgere delle nuove forze proletarie e presa fra la sua volontà di resistenza e di affermazione nelle forme del capitalismo e delle sue manifestazioni nazionalistiche, imperialistiche, belliciste e la coscienza delle proprie interne difficoltà, della disgregazione della visione ottocentesca della vita con i suoi saldi ordinamenti, con i suoi ideali e la sua moralità. La filosofia positivistica con la sua fiducia nella scienza, nella ragione, nel progresso è scossa da una nuova ondata di irrazionalismo, di spiritualismo, di nuovo idealismo che mettono in crisi i suoi ideali e sommuovono profondamente la stessa idea positivista e razionalista dell’uomo, accentuando di questo gli aspetti e gli elementi istintivi, amorali, irrazionali, scoprendo sotto la ragione e la coscienza una zona misteriosa e oscura, quella che il grande Freud scientificamente definirà subconscio, da cui germinano passioni e tendenze compresse dalla volontà cosciente, dalla ragione, da una regola morale che appare sempre piú ipocrita, convenzionale, repressiva.

Sorgono, per diverso orientamento e forza, le filosofie del neo-idealismo, le nuove riprese spiritualistiche e mistiche, mentre nell’arte e nella letteratura si configura la tendenza che suol appunto denominarsi decadentismo.

Questo termine, usato inizialmente in senso di condanna e accettato orgogliosamente e snobisticamente dai primi «decadenti» come espressione di una rivolta al mondo tradizionale e alla sua torbida e opaca sanità, va in realtà accettato ormai in senso storico, come definizione di un periodo e di tendenze storicamente motivate e consistenti e non piú come condanna moralistica ed estetica di un’arte e di un atteggiamento di decadenza e di corruzione.

Ché, come dicevamo, la crisi che dà origine al decadentismo è una crisi storica ben importante e autentica, e attraverso essa passa la difficile e tormentata costruzione della civiltà contemporanea e di sue nuove possibilità positive (che già entro quel periodo di crisi si venivano profilando: si pensi almeno al grande movimento ideale e pratico del marxismo), attraverso essa una nuova idea dell’uomo moderno si arricchisce e approfondisce nella sua complessità estrema e nella sua conoscenza dei propri interiori elementi inconsci e subconsci compressi e non indagati nei periodi storici precedenti. Nel decadentismo fermenterà e si esprimerà cosí – a livelli tanto diversi – una crisi profonda che porterà fino al dubbio della identità e unità salda della persona umana, al senso delle misteriose forze in cui essa si troverà (si pensi già a Pirandello) disgregata e incapace di comunicazioni con le altre persone, ma che solo cosí permetterà agli uomini di prender nuova coscienza della loro situazione e natura evitando i facili ottimismi ed entusiasmi, le facili infatuazioni orgogliose, le fedi troppo rigidamente e sicuramente accettate, la troppo facile certezza di una realtà indiscutibile e ferma.

Il decadentismo riprendeva le punte piú ardite e segrete del romanticismo europeo, le sue tendenze irrazionalistiche e mistiche o mistico-sensuali che già si erano profilate in pensatori come Schopenhauer e poi Nietzsche o in musicisti come Wagner o in poeti come l’americano Poe o come, già al di là del vero e proprio romanticismo, il grande poeta francese Baudelaire, il quale può considerarsi come uno dei padri piú sicuri del decadentismo con la sua poesia antitradizionale, con i suoi temi di perversione e di sofferta sensualità, con le sue idee di una poesia che affonda le sue radici nell’universo stesso e nelle misteriose e recondite regioni della sensibilità, legate fra loro da misteriose analogie e corrispondenze espresse non dalla filosofia, ma appunto dalla poesia, divenuta metodo di superiore conoscenza e rivelazione.

Se le origini del decadentismo europeo vanno ricercate nel piú maturo e profondo romanticismo europeo, il suo consolidamento avviene soprattutto, intorno a Baudelaire, nella grande corrente della poesia francese di secondo Ottocento che prese il nome di simbolismo e di cui i massimi interpreti sono Verlaine, Rimbaud, Mallarmé. La poesia per essi è un nuovo metodo di conoscenza superiore a quella razionale, e il poeta è un veggente, il rivelatore, con la sua poesia tramata di sensazioni e risolta in musica, del regno misterioso che i comuni mortali non vedono come non lo videro i poeti, pur grandi, del passato.

Ed ecco la poesia del decadentismo contrapporre la propria poetica basata sulla sensazione, sulla parola-simbolo e sulla parola-musica, sulla suggestione piú che sull’espressione, a quella dei classici fondata sulla sicurezza di un accordo fra ragione e sentimento e mirante alla serenità plastica e all’evidenza e chiarezza, e anche a quella piú generalmente romantica che effondeva i moti e gli affetti dell’animo, ma non ne suggeriva gli elementi piú misteriosi e segreti e rimaneva ancor chiusa nella concezione di una persona umana magari esasperata e esaltata, ma salda e sicura del proprio intero possesso.

La poesia del decadentismo (e la prima forte spinta innovatrice del decadentismo viene proprio dalla poesia, dalla lirica) non narra e descrive, ma suggerisce ed evoca zone dell’animo nascoste e altrimenti inconoscibili, e perciò la sua meta suprema è la poesia-musica fatta di sensazioni e allusioni sottratte a ogni controllo della ragione, della verosimiglianza, della chiarezza ed evidenza, svincolata da ogni intenzione didascalica e moralistica, liberata nella sua funzione di rivelatrice assoluta dell’aldilà delle cose apparenti.

La poetica decadente, ripeto, arriva cosí ad una specie di antitesi con quella classica e ad una differenziazione essenziale da quella romantica: mentre quella classica vuole un trionfo della serenità e della rappresentazione nitida ed evidente sul sentimento turbato e scomposto, mentre quella romantica vive di slanci, di affermazioni intense del sentimento personale, quella decadente tende ad una musica che porta l’eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto ai classici e appena intravisto dai romantici. E cosí la stessa costruzione poetica rifiuta il saldo modo di coerenza strutturale della poesia precedente e si articola e snoda nella ricerca di una libertà assoluta, fino all’invenzione del «verso libero», svincolato dalla rima e dalla strofa prefissata e prestabilita.

Naturalmente un periodo cosí vasto e complesso ha anche notevolissime diversità e articolazioni interne e vari gradi di profondità, che oscillano fra le forme piú appariscenti e spesso piú superficiali (anche se capaci di loro esiti poetici) di un decadentismo affidato soprattutto alle risorse della sensibilità musicale e verbale, e quelle piú decisive e complesse di un decadentismo che interpreta e vive tormentosamente la crisi dell’uomo, della società e della storia.

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In Italia la formazione di un clima e di una letteratura decadente è indubbiamente piú tarda rispetto ad altre letterature europee e specie francese. Il che si spiega soprattutto con la minore presenza nel romanticismo italiano di fermenti di tipo mistico e di una sensibilità piú esasperata che possono semmai parzialmente cogliersi in alcuni aspetti dell’opera del Tommaseo o in certe aperture incerte del tardo romanticismo del Prati e dell’Aleardi a forme di languore sensuale e a certa raffinatezza di sensibilità poetico-musicale. Solo con la scapigliatura, come a suo luogo si è detto, si avverte (insieme ad una nuova, piú aperta conoscenza delle letterature straniere contemporanee) un confuso accento predecadente sia nella stessa figura di scrittori che assumono atteggiamenti di «poeti maledetti» e di «bohémiens» in rottura con la morale e il costume tradizionale e convenzionale, sia nella scelta di temi nuovi fra misteriosi e torbidi, sia nella ricerca spesso assai velleitaria di forme liberate dalla tradizione e adeguate ad una sensibilità e ad un gusto nuovi e moderni; mentre nei piú tardi svolgimenti della poesia del Carducci elementi fra tardo-romantici e predecadenti rimanevano – specie agli occhi dei contemporanei – fortemente limitati nella loro novità dalla proclamata fedeltà del poeta a ideali di vita e di arte classica. Il peso e la forza della tradizione erano piú rilevanti che altrove, e mentre si sviluppava la forte esperienza del verismo, appoggiata alla cultura positivista, le aperture di tipo decadente erano tutto sommato piú discontinue e incerte, piú velleità che vera forza di novità e di creazione di nuove forme di poesia e di letteratura adeguate alla formidabile crescita del decadentismo francese ed europeo, di cui pur si cominciava a sentire l’attrazione, combattuta da forti resistenze tradizionali e provinciali.

Tuttavia, malgrado tante remore e incertezze, negli ultimi decenni del secolo anche in Italia si viene lentamente formando un clima propizio all’affermazione e allo sviluppo del decadentismo. Il positivismo viene incrinato da nuovi movimenti di tipo spiritualistico, irrazionalistico, idealistico che mettono in dubbio e in crisi la fiducia nella scienza di cui si avverte la limitatezza di fronte al mistero del mondo e alla complessità delle passioni e degli istinti dell’uomo, mentre la grande crisi etico-politico-sociale provocata dalla delusione del Risorgimento tradito o rivelatosi insufficiente alle nuove esigenze del paese (delusione tanto risentita già nello stesso verismo) provoca un confuso clima tra sfiducia, velleità di nuovi miti nazionalistici e imperialistici, crescente coscienza delle contraddizioni della storia e della condizione umana, evasione nel sogno e nel culto dell’arte e della poesia piú raffinate e squisite, abbandono alla sensibilità piú libera e soggettiva.

E intanto circolano e agiscono sempre piú i nuovi testi della letteratura decadente europea e molti letterati italiani aspirano ad una modernità adeguata a quella delle letterature straniere, ad una liberazione dalla tradizione che sentono chiusa e provinciale.

In una situazione cosí complicata spesso il nuovo è anche una ripresa di istanze romantiche meno approfondite ed esasperate in Italia, come può avvertirsi in certo tipo di poesia minore, ma spesso assai interessante, che piú chiaramente si rifà a forme romantiche meno sviluppate in Italia o piú arditamente proclama la sua novità e modernità rivelandosi però, all’esame dei risultati, piú carica di elementi romantici che non intonata ai piú veri motivi della nuova letteratura.

Sarà il caso, fra gli altri, di Arturo Graf, piú chiaramente legato a riprese di romanticismo nordico, o quello di Domenico Gnoli (1838-1915), che con un volume di poesie, pubblicate con lo pseudonimo di Giulio Orsini, rifiutava la sua precedente attività di poeta tradizionale, cantava i nuovi temi del mistero e della situazione di uomini abbandonati alla libertà della loro sensibilità e proclamava ambiguamente il bisogno di una poesia nuova anche nei suoi strumenti espressivi: «Giace anemica la musa / sul giaciglio dei vecchi metri: / a noi, giovani, apriamo i vetri / rinnoviamo l’aria chiusa!». E cosí, presi in gran parte dal bisogno appunto di nuovi strumenti espressivi e soprattutto dalla fiducia nel nuovo «verso libero» (poi tanto appoggiato dall’irrequieto e polemico Gian Pietro Lucini, che se ne proclamò primo vero inventore), vari altri poeti si dibattono fra vecchio e nuovo, fra ritorni romantici e piú autentiche aperture moderne, e vengono cosí creando il nuovo clima del decadentismo italiano. E si ricordi ancora, in tal senso, la tormentata ricerca poetica e critica del piemontese Enrico Thovez (1869-1925), incapace di vera costruzione organica, ma ricco di impressioni e sensazioni vivissime, e ben significativo nei suoi riflessi critico-programmatici (soprattutto il volume di critica anticarducciana, ma anche antidannunziana e antipascoliana, Il pastore, il gregge e la zampogna) per il disagio e la scontentezza di uno scrittore che tende ad una poesia nuova, tutta sensibilità e spiritualità libera e soggettiva, ma che insieme spesso rimane preso dalla suggestione del grande romanticismo.

Ancor piú direttamente attiva nella formazione del clima decadente italiano è poi da considerare la personalità dell’anconetano Adolfo De Bosis (1863-1924) che, mentre nelle sue liriche, appoggiate all’esperienza di tanta poesia straniera, esprime un mondo interiore raffinato e teso alla rivelazione di superiori verità misteriose e metafisiche, svolse nella sua rivista «Il convito» una importante azione di appoggio alla nuova letteratura decadente, specie nel suo aspetto estetizzante cosí predominante nella temperie decadente italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.

L’estetismo infatti (e cioè una prospettiva che punta sul primato assoluto dell’arte, sulla bellezza squisita e aristocratica, come mèta dell’arte e della stessa vita di artisti che si distaccano dalla volgarità e dal cattivo gusto della gente comune e cosí evadono dalla brutta e rozza realtà e dalla crisi del proprio tempo) è l’aspetto piú vistoso del decadentismo italiano nella sua fase di fine secolo e nelle forme che culminano nell’opera e nelle stesse forme di vita del D’Annunzio.

Alla formazione dell’estetismo decadente concorrono, oltre al «Convito» del De Bosis, altre riviste come, a Firenze, il «Marzocco» e soprattutto, a Roma, la «Cronaca bizantina», lanciata da un abile e spregiudicato editore, Sommaruga, e che ben sottolinea già nel titolo (con il richiamo a Bisanzio, la sontuosa, corrotta, raffinata capitale dell’impero d’oriente) la consapevolezza, fra sarcastica e compiaciuta, di vivere in un clima corrotto, in rottura con gli ideali ottocenteschi, ma comunque sentito come moderno e animato da nuovi ideali di bellezza, di arte squisita e disinteressata, di eleganze aristocratiche, di disprezzo per le convenzioni morali e per la vita quotidiana comune e monotona, volgare e ottusa, intesa alla ricerca dell’utile. Da questo atteggiamento che, mentre cerca di affiatarsi con correnti straniere di gusto decadente, ha chiari caratteri di snobismo assai provinciale, nasce il culto esasperato della bellezza, della poesia come musica e suggestione di preziose ed eccezionali sensazioni, della divinità della parola, evocatrice di miti raffinati o eccitanti che offrono l’evasione dalla realtà o stimolano l’avventura, fra lo sfrenamento dell’erotismo e l’affermazione eroica e «bella» dell’individuo d’eccezione e magari di gruppi di individui di eccezione utilizzanti le masse – considerate ottuse e di per sé inutili – per realizzare i propri sogni di potenza nazionalistica e imperialistica.

Ben altra sarà la forza di coscienza del decadentismo piú maturo e profondo che, in Italia, troverà espressione nell’opera artistica e conoscitiva di un Pirandello o di uno Svevo, che va al di là dell’estetismo e dei suoi miti fastosi e violenti (i quali assecondarono, a vario livello, la crisi politica e sociale italiana, le spinte reazionarie della borghesia capitalistica fino allo sfocio nel nazionalismo imperialistico e dittatoriale) e implica un’essenziale presa di coscienza (piú vicina alla grande arte del maturo decadentismo europeo) di una crisi storica ed esistenziale, la rivelazione, con la forza dell’arte, del dramma dell’uomo decadente, della sua solitudine, della sua disgregazione interiore, della complessità delle forze del suo subconscio, dei limiti della ragione in cui tanto aveva creduto la precedente età positivistica.

C’è dunque uno sviluppo di diversi aspetti e livelli del decadentismo italiano che potrà piú concretamente considerarsi nei paragrafi successivi, dedicati a personalità e correnti della letteratura tra fine Ottocento e primo Novecento.

E ora infatti inizieremo la descrizione di tale sviluppo affrontando la figura e l’opera del D’Annunzio, che tanto originalmente incarna in sé la situazione e le tendenze dell’estetismo decadente e il predominio dei miti e della sensibilità (piú che della coscienza profonda) del decadentismo.

2. Gabriele D’Annunzio

Al centro del decadentismo italiano stanno la figura e l’opera di Gabriele D’Annunzio, che, mentre si alimenta vivamente delle varie offerte del decadentismo europeo, le media però in forme prevalentemente immaginifiche e sontuose perdendone per lo piú i fermenti piú profondi quali si esprimevano nel grande simbolismo francese o negli scavi analitici dell’inconscio propri della grande narrativa decadente europea. Dotato di un forte istinto mimetico (che gli permise di assimilare e far suoi tanti aspetti della letteratura contemporanea), di una prepotente vocazione all’immagine e al gusto sensuale-musicale della parola, di una sicura maestria di grande artefice letterario, ma privo di un vero mondo intellettuale e morale, il D’Annunzio seppe costruire, nella sua lunga e varia operosità, una multiforme espressione dell’animus e del costume decadente, specie nella sua versione di estetismo e cioè nella prevalenza di una visione dominata dalla bellezza e dall’eleganza piú che da dolorosi problemi interiori e da salde prospettive intellettuali e morali. Né la sua opera è separabile, nel suo significato storico e artistico, dalla prepotenza dell’uomo, che visse in modi e atteggiamenti spettacolari e avventurosi i miti stessi di bellezza, di ardimento, di sensualità priva di ogni remora morale, che la sua arte esaltava nei suoi scritti. Sicché la sua stessa vita appare come la realizzazione fortunata dei sogni e dei miti del poeta e insieme delle tendenze e del gusto di un’epoca che si riconobbe appunto nell’intero modello di vita e di arte rappresentato dal D’Annunzio e fu dominata, in molti dei suoi strati borghesi, dalla suggestione dello scrittore e dell’uomo, assecondata verso i miti di bellezza e di gloria tanto discordanti dalle piú profonde esigenze concrete del paese e dal moto di ascesa delle sue classi popolari.

La vita

Nato a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia di agiata borghesia, non priva di ambizioni culturali, il D’Annunzio fu inviato nel ’74 al collegio Cicognini di Prato, dove compí gli studi medi, dando già prove precoci della sua esuberante vocazione letteraria e della sua ansia di affermazione e di successo, che poterono trovare ben altre occasioni e risorse quando nel 1881 il giovane poeta, già toccato dalla fama dovuta al primo volume di versi, Primo vere, si trasferí a Roma, presto abbandonando gli intrapresi studi universitari per lanciarsi in una vita mondana, snobistica, piena di avventure amorose (come quella che, dopo una fuga clamorosa, si concluse nel matrimonio del poeta con la duchessina Maria di Gallese), e insieme giornalistica e letteraria quale poteva ben offrirla al prodigioso scrittore e uomo di società la nuova capitale italiana in via di svecchiamento e di apertura alle mode europee, percorsa da una febbre di speculazione, di spregiudicatezza e di eleganza estetizzante, di affarismo politico e letterario.

Il D’Annunzio vi passa dieci anni fondamentali nella sua formazione di scrittore e di esteta, di uomo dai gesti spettacolari, bisognoso di successo e di lusso, anche quando (dopo due anni passati, come giornalista, a Napoli) sembrava ritrarsi, stanco e nauseato, dalla società e dalla pubblicità, per concentrarsi nel proprio lavoro di scrittore, come fece, prima in un periodo trascorso nella nativa terra abruzzese, poi (dal 1898 al 1910) in una villa di Settignano nei pressi di Firenze, la celebre villa della Capponcina, in cui la solitudine operosa dell’artista era in realtà confortata non solo da un lusso esagerato e sfarzoso (giunto fino all’impiego di 25 domestici e al possesso di dieci cavalli, quaranta levrieri!), ma da visite di amici, di ammiratori devoti, di donne innamorate e famose come, fra tutte, la grande attrice Eleonora Duse, mentre sempre piú il D’Annunzio diveniva non solo lo scrittore ammiratissimo e applaudito da un vastissimo pubblico, ma un modello di vita, di eleganza, di comportamento per gran parte della borghesia italiana che insieme trovava nei suoi libri e specie nel suo teatro espressione esaltante delle proprie tendenze nazionalistiche e imperialistiche, già da lui accolte (malgrado qualche clamoroso gesto di improvvisi, ma fuggevoli avvicinamenti alla sinistra) quando, alla fine del secolo, era stato deputato dell’estrema destra.

La sua vita fortunata e sfarzosa sembrò avere una svolta pericolosa nel 1910 per i debiti che lo costrinsero a vendere la Capponcina e a sottrarsi alle ristrettezze economiche lasciando l’Italia e passando in Francia. Ma anche allora il suo istinto abilissimo seppe cambiare una situazione penosa e umiliante in un nuovo modo di affermazione della sua personalità, presentando il suo trasferimento in Francia come un volontario e tormentoso esilio del grande artista incompreso in patria e sdegnato dell’angustia e mediocrità della vita politica italiana. Quando poi scoppiò la prima guerra mondiale, egli divenne il vessillifero dell’interventismo, l’oratore delle «radiose giornate di maggio» e infine, dotato come indubbiamente egli era di audace coraggio, il «poeta-soldato», il protagonista di famose imprese come il volo su Vienna e la violazione del porto austriaco di Buccari con una squadriglia di «MAS». Conclusa poi la sua grande avventura bellica, egli seppe cogliere gli elementi di scontentezza della borghesia italiana piú nazionalistica, antidemocratica e antisocialista, interpretando il mito della «vittoria tradita» da governi timidi e rinunciatari e promovendo la celebre impresa di Fiume, che gli permise di divenire condottiero e capo politico della singolare repubblica del Carnaro, finché questa avventurosa vicenda fu stroncata da un energico intervento del governo italiano.

Dopo avere invano tentato di mantenere un prestigio politico assumendo persino il ruolo di superiore pacificatore fra destra e sinistra, il fascismo (a cui egli aveva offerto tanti slogans retorici, tanti motivi propagandistici e tanti elementi del suo linguaggio fra retorico e mistico-patriottico) e Mussolini giunti al potere si sbarazzarono di questo scomodo alleato e rivale praticamente confinandolo, pur colmandolo di onori e prebende, nella sontuosa villa di Gardone (il Vittoriale) sul lago di Garda, carica di cimeli bellici e sfarzosamente arredata secondo il tipico malgusto estetizzante di cui D’Annunzio amava circondarsi. Qui egli trascorse la sua vecchiaia, impegnato ancora in un tenace lavoro di artefice della parola, ma sempre piú contraddistinto biograficamente da una solitudine tra infastidita ed esaltata da atteggiamenti istrionici, da sussulti di ripresa di attività pubblica e di appoggio alla politica imperialistica fascista (come i messaggi e le orazioni in occasione della guerra etiopica) e una sorda irritazione contro lo stesso fascismo. Morí il 1° marzo del 1938.

Da «Primo vere» alle «Laudi»

Abbiamo indugiato abbastanza a lungo sulle vicende biografiche di D’Annunzio perché esse non solo spiegano la presenza fascinosa dello scrittore in un preciso tempo (e viceversa l’antipatia che esso non può non suscitare in chi veda in quel tempo un periodo estremamente pericoloso e odioso nella storia italiana), ma anche perché quella vita costruita come arte, come esercizio di eleganze raffinate e snobistiche e insieme di affermazione dell’io, del «superuomo» artista ed eroe, fa ben parte della visione dannunziana della vita e della letteratura, di una visione tanto povera di profondi succhi morali quanto ricca di atteggiamenti spettacolari e di continui scambi fra vita e letteratura, secondo una concezione decadente ed estetistica di cui il D’Annunzio è massimo interprete e promotore.

Precocissimo, il D’Annunzio già rivela nelle sue prime opere la sua vocazione piú vera e la sua estrema abilità di assimilatore originale delle tendenze piú diffuse nel gusto del suo tempo. Cosí già in Primo vere del ’79 e meglio in Canto novo dell’82 egli si appropria dei modi lirici carducciani e insieme li riprende e li trasforma in un piú acceso ed esuberante colore sensuale, in una musicalità raffinata e calda, sostenuta dalla violenta espressione di una personalità che si alimenta non di idee ma di sensazioni e afferma la sua prepotente vitalità in sogni di voluttà intrecciati alla creazione di personaggi intensi e sensuali, in una specie di panismo che esalta uomo e natura nella loro comune esuberanza non priva di cadenze piú morbide e languide. E, d’altra parte, il prosatore si presenta ben presto, con le sue raccolte di novelle ambientate spesso nella sua terra abruzzese (Terra vergine dell’82, Il libro delle vergini dell’84, San Pantaleone dell’86), come assimilatore della lezione del verismo, ma insieme come trasformatore di questa, privata dei suoi piú profondi elementi di pietà e impegno sociale e risolta in una forma di rappresentazione fra crudele e compiaciuta di una realtà torbida, primitiva, quasi barbarica, di cui l’artista, già cosí tenacemente agguerrito, evidenzia in piena luce i caratteri piú morbosi, animaleschi, ferini.

Sensualità panica e languore raffinato sono i toni piú sinceri della personalità dannunziana, corrispondenti a una natura piena di vitalità istintiva, ma priva di una vera disposizione intellettuale e morale, sí che all’ebrezza sensuale, alla creazione di miti sensuali e musicali, in cui l’uomo si confonde con la natura in un comune slancio vitale, può seguire, quando subentra la stanchezza di tali impeti, non un ripensamento interiore ma un abbandono languido a sensazioni morbide ed eleganti, a una musicalità lenta e suggestiva, a una raffinata sentimentalità che non ha mai la forza profonda del vero sentimento e che si avvale, al pari della sensualità piena e trionfante, di un’eccezionale abilità letteraria, di un’eccezionale capacità di comunicazione suggestiva e suasiva, che punta sul valore suggestivo della parola e del ritmo sensuale e prezioso.

Cosí dopo gli esordi poetici e narrativi tesi dall’ebbrezza vitale e dalla rappresentazione degli istinti ferini dell’uomo succede, nell’ambiente propizio della Roma mondana ed estetizzante, una vasta produzione di opere poetiche e prosastiche che, mentre utilizzano abilmente e superficialmente le lezioni della letteratura europea di secondo Ottocento, esprimono i sogni e i miti preziosi e languidi del giovane esteta e «arbiter elegantiarum», volto a costruirsi un mondo di raffinata ed estenuata bellezza (il caso centrale del romanzo, Il piacere, in cui D’Annunzio si ritrae nella figura gracile e preziosa del protagonista, Andrea Sperelli, che passa da sensazione a sensazione, da avventura amorosa ad avventura amorosa entro un mondo vacuo e sfatto, quasi annoiato e attediato dalla sua stessa monotona raffinatezza), a cesellare poesie di squisita eleganza e dominate, dalla ricerca di una bellezza tutta formale e musicale della parola (come nella raccolta Intermezzo, Isotteo, Elegie romane), per poi passare (con apparenti ed effimere conversioni alla bontà e alla pietà umana, che non toccano mai il profondo dell’animo, come avviene nel romanzo L’innocente che si avvale dell’esperienza del romanzo russo e soprattutto di quella di Dostoevskij) alla piú diretta ricerca del languore, di una musicalità stanca ed estenuata, di indubbia suggestione, nelle poesie del Poema paradisiaco che, usufruendo di esempi del decadentismo francese e soprattutto di Verlaine, puntano su di una poesia diretta come a cullare una sensualità stanca e pur raffinata, a suggerire, con le loro cadenze abilmente ripetute e interrotte da silenzi, come uno stato di tenerezza e di sfinimento cui collaborano le immagini e le scene di giovinezze sfiorite, di malati incurabili in ospedali silenziosi e attraversati da figure diafane di suore pietose, di amori còlti non piú nella loro impetuosa e ferina sensualità, ma in una sensualità languida che sfiora la rinuncia e l’impossibilità.

Poi questa fase tra preziosa e languida cede di nuovo all’impeto piú energico della personalità del D’Annunzio, che è intanto venuto a contatto – nell’arco delle sue esperienze cosí varie, ma cosí superficiali – con il mito del «superuomo» del Nietzsche e ne ha ripreso la versione piú esteriore e piú congeniale alla propria natura di dilettante di sensazioni, di cultore del proprio «io», di aristocratico dispregiatore della comune umanità, di esaltatore di un attivismo sfrenato, per il quale gli stessi miti nazionalistici e imperialistici, di cui D’Annunzio si viene sempre piú facendo portatore, sono in realtà non frutto di convinzione, ma pretesto e droga eccitante.

Cosí nascono i nuovi romanzi e il teatro, cui il D’Annunzio si applica sia per un desiderio di nuova esperienza letteraria, sia, e piú, perché il teatro gli permette una nuova comunicazione con un vasto pubblico a cui lanciare i suoi miti decadenti e retorici, la sua predicazione di miti nazionalistici-imperialistici, militaristi e antidemocratici, come di miti di «super-umano» sfrenamento degli istinti «al di là del bene e del male», del diritto di pochi privilegiati a imporre la loro «volontà di potenza» sulla massa, o di affermazione dell’artista-eroe che costruisce la sua vita come un’opera d’arte e la sua arte come un incentivo ai gesti grandiosi ed eccezionali.

Sarà chiaro che i romanzi (Il trionfo della morte, Le vergini delle rocce, Il fuoco, fra 1894 e 1900, e piú tardi, nel 1910, il piú suggestivo, Forse che sí forse che no) e i drammi (La città morta, La gloria, La Gioconda, Francesca da Rimini, La fiaccola sotto il moggio, Piú che l’amore, La nave, Fedra, Parisina, fra 1898 e 1913: un posto a parte occupa, come vedremo, La figlia di Jorio), nati dal mito del superuomo e dell’esteta fattosi aggressivo e predicatore di miti aggressivi, si discostano profondamente da una vera vocazione narrativa e drammatica, sommersi come sono da un gusto opulento di descrizioni e di sfarzo poetico, deboli come sono di una vera salda trama d’azione. Piuttosto essi sono da una parte pretesto alla impostazione di personaggi che incarnano il mito del superuomo, artista o eroe, e spesso insieme artista ed eroe, ai loro gesti che stanno al confine fra il sublime e il ridicolo, alle loro declamazioni esortative e retoriche, e dall’altra sono pretesto all’impiego di una prosa liricheggiante che oscilla fra l’enfatico e un piú sottile e suggestivo linguaggio poetico che ben si afferma nel Fuoco e culmina in certe parti, di indubbia forza lirica, del Forse che sí forse che no, dove le avventure del protagonista, avventuroso aviatore, e i suoi amori incestuosi con la sorella si fondono nella descrizione suggestiva del livido paesaggio di Volterra o in quello sfatto e allucinante della reggia ducale di Mantova.

Sulla spinta del mito del superuomo la personalità del D’Annunzio vive sempre una violenta stimolazione di tutte le sue forze e l’impeto lirico trova una sua via di espressione centrale in una ripresa di quella vocazione al mito panico, di unione fra paesaggio e uomo nella loro comune vita sensoriale e sensuale che già aveva avuto risultati anticipatori in molte poesie del giovanile Canto novo.

«Le laudi»

Ciò avviene nell’opera lirica Le laudi e soprattutto nel terzo libro di questa, l’Alcyone, il capolavoro supremo delle possibilità poetiche dannunziane. Prima l’impeto del superuomo si traduce nell’esaltazione lirica sfrenata della sua cupidigia di vita, della sua volontà di affermazione artistica e pratica in un multiforme sfogo di esperienza interamente vissuta e in un sogno assurdo di rinnovare una distorta immagine della classicità dominata dalla figura dell’Ulisside, dell’emulo moderno di Ulisse, simbolo dell’eroe superumano che non vuole limiti alla sua avventura e alle sue esperienze e che disprezza insieme la saggezza intellettuale e morale («la saggezza non val legno ficulno»!) e l’ascetismo cristiano in nome di quella «quadriga imperiale» del superuomo costituita da «volontà, voluttà, orgoglio, istinto». È il momento del primo libro delle Laudi (Maia o Laus vitae), concepito come inno-poema, appoggiato alla trama di un viaggio in Grecia (realmente compiuto dal D’Annunzio con alcuni amici nel 1897) e costruito in un febbrile ed enfatico sgorgo di sequenze in versi liberi, in strofe lunghissime e smisurate che intendono tradurre nel loro ritmo antitradizionale, aperto, di lunghissimo respiro e nella loro orgia incandescente e tumultuosa di immagini e di parole rutilanti e sensuali la frenetica ansia del superuomo-artista di vivere e godere nell’arte tutta la gamma delle sue esperienze e dei suoi desideri, tutte le forme della vita sensibile. Ma l’ambizione smisurata della Laus vitae, pur realizzata in certe particolari scene e in certe sequenze piú dense, fallisce nei suoi propositi di un nuovo e singolare poema e la poesia, che pur circola, è sopraffatta dalla sovrabbondanza oratoria spesso insopportabile. Né meglio riesce il tentativo piú vario e meno vistoso del secondo libro delle Laudi, Elettra, mentre il quarto libro, Merope, composto piú tardi, al tempo della guerra di Libia, rappresenta lo sfogo piú torbido e impoetico dell’eloquenza del superuomo che in quella impresa di conquista esalta i suoi miti militaristici e imperialistici, il suo odio antidemocratico, la sua immagine falsa della «stirpe» italiana che deve riscattarsi dalla sua misera vita volgare in un’assurda assunzione totale di impegni di guerra di conquista, di volontà di potenza, divenendo quel «popolo di eroi» che tornerà piú tardi nei ridicoli e volgari inni del fascismo.

Ben altro è, come dicevamo, la poesia dell’Alcyone, che pur non nasce come un miracolo tutto estraneo alle linee dell’esperienza artistica precedente e alla fase dominata dal mito del superuomo a cui pur l’Alcyone appartiene. Il fatto è che le energie di vitalità e di sensibilità che il poeta-superuomo espande altrove nei suoi sogni fastosi e retorici, nella sua arte predicatoria e demagogica, vengono nell’Alcyone impiegate ad un piú libero e gratuito canto, all’espressione del suo incontro e della sua fusione con la natura, alla costruzione di miti paesistici in cui si trasfonde l’impeto creativo di una poesia che trova fecondo alimento proprio nel terreno delle sensazioni, in un mondo di sensibilità, non di pensiero e di cultura.

Su questa disposizione di incontro fra superuomo nella sua maggiore forza di istinto e di sensibilità e natura non obbiettiva e inerte, ma animata dallo stesso vitalismo del poeta e quindi pronta a realizzarsi in mitiche forme antropomorfiche, in figure fra naturali e umane, il D’Annunzio ha immesso nell’Alcyone una lunga e diffusa poeticità che circola in tutto il volume e ha creato alcune liriche di rara bellezza in cui quella diffusa poeticità, quella tensione a rappresentare la natura come qualcosa di vivo e animato e l’uomo nei suoi elementi di naturalità, di istinto, di pura sensibilità e sensualità, si coagulano e si costruiscono compiutamente, anche se con una compiutezza molto diversa da quella che troviamo nella poesia della grande tradizione del passato. Ché, infatti, le stesse liriche piú individuate e autonome han pur sempre una loro certa labilità, emergono e si riimmergono nella diffusa poeticità di tutto il libro, prive come sono di una salda costruzione intellettuale e spirituale, disposte come sono in momenti di consolidamento provvisorio di un lungo canto panico, di una costante metamorfosi di forme naturali e umane.

Varie sono le liriche di Alcyone che costituiscono l’offerta maggiore della lirica dannunziana e che piú centralmente corrispondono al senso panico di fusione fra natura e uomo (un uomo che è poi il «superuomo» nei suoi elementi piú istintivi, sensuali, vitali) dando luogo ad apparizioni fantastiche e mitiche di creature a mezzo fra natura e uomo, come il centauro della Morte del cervo o come la labile e trasmutabile Undulna, creatura nata dallo spumeggiare delle onde marine, nell’omonima lirica, o come la favolosa figura dell’estate che corre e si riversa immensa e calda di vita in Stabat nuda aestas.

Ma certo la forza e l’equilibrio lirico dell’Alcyone, la sua prodigiosa capacità di una musicalità nutrita costantemente da uno sgorgo di sensazioni tradotte immediatamente in parole che valgono soprattutto per i loro effetti di suono suggestivo e limpido, misterioso e naturale insieme (come se quelle sensazioni nascessero da un profondo accordo fra il poeta e la stessa natura), raggiungono la loro massima esemplarità nella famosissima Pioggia nel pineto e nella Sera fiesolana.

Nella prima una lievissima trama favolosa di attrazione amorosa fra i due personaggi umani, il poeta e la misteriosa figura femminile Ermione, sorpresi nella pineta da una pioggia improvvisa che li penetra fino ai loro pensieri e li trasforma in creature silvane e vegetali, si fonde interamente con la musica varia e perfetta del bosco sotto la pioggia. Poco contano il racconto evanescente e le lievi sfumature psicologiche dei personaggi umani, e tutto si risolve in una incantata e dolcissima musica fatta di parole-sensazioni che si stende lunga e pur non monotona fra il suo sorgere e il suo esaurirsi e in cui le sensazioni dei personaggi divenuti parte della natura e quelle delle varie piante del bosco, quelle delle sue voci piú misteriose e riposte, portano le loro note musicali appunto come note di un’unica sinfonia che con le sue infinite variazioni giunge all’anima del lettore attraverso la sua sensibilità destandovi un senso di leggerezza, di gioia, ombrata da una lieve malinconia, non precisi sentimenti e pensieri.

È qui che il decadentismo dannunziano appare piú fertile di novità nella stessa costruzione aperta della lirica, priva di saldi e precisi temi, di svolgimento concluso, disposta ad assecondare una lieve ebbrezza sensuale che affiora e si spenge quasi senza un preciso perché, senza una spiegata ragione.

Ancora piú alto è il risultato della Sera fiesolana, in cui il vago riferimento ad una presenza femminile, destinataria di questa lode cosí sommessa e suggestiva della sera, non fa che rafforzare il tono di soavità tenera e limpida di questo mirabile canto e tanto piú è abolito ogni appoggio di racconto e di tema concettuale e riflessivo. Tutto è pura musica di alleggerita e soave sensualità, tutto riconduce continuamente a un lieve senso di pace in cui i sensi vibrano delle loro note piú misteriose e limpide e il paesaggio fiesolano si scioglie in un colore tenue e trascolorante (il colore incerto del grano non ancora maturo e del fieno tagliato, il grigio-argento e quasi il pallore degli ulivi) che si fonde con la musicalità divenuta ancora piú suggestiva e impalpabile in forza di un’arte della parola-musica (si pensi all’incanto del suono della pioggia «che bruiva / tepida e fuggitiva»), che è capace di sorprendere e tradurre interamente i piú sottili e segreti moti e parvenze della natura, cosí come le immagini soavi e i paragoni fra natura ed elementi umani (le colline incurvate come labbra chiuse da un misterioso divieto) non hanno nulla di intellettualistico e di retorico e collaborano perfettamente a questa musicale espressione di una pace consolatrice e soave, tutta consistente, piú che in un profondo sentimento dell’anima, in un moto genuino e puro della sensibilità tutta affidata a se stessa.

Su di un piano nettamente inferiore all’Alcyone, ma certo in una zona di risultati assai diversi dalle forme piú enfatiche e sontuose di tanta produzione della fase del «superuomo», si colloca un componimento teatrale, La figlia di Jorio (pure del 1904), che pur riporta il «superuomo» dalle sfere falsamente sublimi dei suoi miti piú grandiosi e velleitari a una temperie piú favolosa e addirittura fiabesca, alla rappresentazione di un mito che, pur non privo di crudeltà e di violenza sensuale, alleggerisce il gusto disumano dannunziano in un sogno leggendario e folcloristico, in un abile e suggestivo quadro di istinti primordiali, di una religiosità superstiziosa, ma tradizionale e collettiva: il quadro di un Abruzzo campestre e pastorale con le sue superstizioni e i suoi riti tradizionali entro cui si svolge, fra preziosa e incantata, la vicenda di Mila di Codro, una donna perduta che il pastore Aligi salva dalla furia lussuriosa dei mietitori e che ama perdutamente fino ad insorgere contro il padre Lazzaro e ad ucciderlo, salvato poi dalla morte cui il suo delitto lo condanna ad opera della stessa Mila e del suo sacrificio riparatore. Certo si tratta di un Abruzzo molto artefatto e di maniera, né la vicenda approfondisce motivi umani e morali, ma l’insieme della favola scenica è come un canto tra fresco e raffinato di notevole efficacia.

L’ultimo D’Annunzio

Bisogna infine calcolare, per meglio valutare tutte le possibilità di questo scrittore, pur incapace di un vero profondo sviluppo, proprio dei grandi poeti e dei loro grandi e complessi mondi spirituali e ideali, la sua produzione piú tarda sulla sua linea piú centrale e meno insidiata dalla sontuosa retorica e dal dilettantismo virtuosistico che pesano su altre opere pure del tardo periodo (come i suoi scritti di tipo retorico-politico e certe esercitazioni preziose, fredde e alla fine dilettantesche, in francese).

Si tratta di quel D’Annunzio che la critica ha chiamato «segreto» e «notturno» riferendosi ad opere in prosa di memoria autobiografica come Le faville del maglio, pubblicata fra il ’24 e il ’28, o come il Libro segreto del ’35 e il Compagno dagli occhi senza cigli, del ’28, o a quella specie di diario del periodo di guerra intitolato appunto il Notturno, pubblicato nel ’16 e poi ampliato nel ’21. Proprio in una prosa libera e lievitante di immaginazione e sensibilità sempre piú acuta e penetrante (non mai di vero pensiero, ché, come piú volte si è detto, il D’Annunzio è poverissimo di sostanza intellettuale) lo scrittore riprendeva l’operazione lirica piú sottile e musicale dell’Alcyone (nonché elementi della tenerezza e morbidezza del Poema paradisiaco) e immergendosi nella memoria del proprio lontano e vicino passato ne traeva mirabili brani suggestivi, illuminati da una specie di fosforescenza impalpabile, da una sensualità rarefatta fino a sembrare rapita fuori dei sensi, carica di allusioni misteriose, capace di una musicalità piú sommessa e intima, di un colore privato delle sue tinte piú corpose e risolto in una luce diafana come quella di un acquario.

Non si tratta di una vittoria del sentimento e di un’umanità piú profonda sulla sensualità, dello spirito sulle sensazioni, di una vera conquista di assoluta interiorità, di voce spirituale dell’anima, né di superamento totale del virtuosismo verbale, ma certo la sensualità dannunziana si è come fatta piú sottile e profonda, capace di adeguare i moti piú pronti e acuti della memoria, di creare immagini piú ramificate e impalpabili, di scandagliare e rappresentare zone segrete e misteriose del fondo psichico del poeta che evoca lontani ricordi della fanciullezza e dell’adolescenza, sfumature complesse della sua psiche, proiettandoli in un paesaggio pur evocato e fantastico, in cui la realtà è colta nel suo palpito piú segreto, nei suoi fermenti piú intimi, nella sua fosforescenza.

E cosí il suo virtuosismo verbale non è abolito, ma condotto ad un impiego ancor piú raffinato, piegato ad adeguare lo scandaglio nel profondo della memoria, della psiche, della realtà.

In questo senso si dovrà puntare soprattutto sul Notturno, scritto – si noti bene – in una singolare situazione di cecità (il poeta era costretto a letto bendato, e scriveva su lunghi e stretti rotoli di carta senza poter vedere) che favoriva – privandolo della vista diretta della realtà esterna e presente – una specie di ipersensibilità visiva e soprattutto musicale sollecitata dal mondo di sensazioni raccolto nella memoria, non scaturito da oggetti presenti, e accentuava cosí una direzione prevalente in tutta la sua ultima produzione.

Dice il poeta: «Ora io ho – mi sembra – un orecchio piú sensibile di quello che musicò La pioggia nel pineto».

E infatti in quella prosa lirica, che scartava ogni tentazione di costruzione romanzesca e di declamazione oratoria, le minime sfumature della sensibilità trovano la loro espressione, l’evocazione di cose, paesaggi, persone vive in un’atmosfera allucinata e misteriosa, che si avvale spesso di una tecnica del periodo breve, scarno, identificato con le singole sensazioni, diversamente dalla dovizia sontuosa di certo periodare largo e sonante della precedente prosa dannunziana. Ne nascono pagine e passi indimenticabili come quello della rievocazione della morte dell’aviatore Miraglia e delle lugubri operazioni della sua sepoltura, in cui l’atmosfera di una Venezia invernale squallida e silenziosa, la pena del poeta per la scomparsa del compagno, il senso macabro del disfacimento corporeo, i suoni e i gesti della chiusura e saldatura della bara si fondono in una sensazione acre e misteriosa della morte, della desolazione, del nulla.

Anche con queste ultime opere D’Annunzio non è uscito dal cerchio e dalla zona dei sensi (forza e limite della sua personalità e delle sue poesie), ma ne ha approfondito lo scavo fino a una eccezionale e prodigiosa acutezza e a una resa artistica di altissima suggestione.

Conclusivamente va detto che non si può chiudere il D’Annunzio in un giudizio solo negativo di retore, in una semplice valutazione del suo magistero tecnico, e che, se la sua poesia non ha la profonda grandezza e complessità dei veri grandi poeti, essa pur esiste e resiste, come una delle rare espressioni poetiche del decadentismo italiano, di cui occorre ben comprendere i limiti di pensiero, di moralità, di cultura, ma, in questi, anche l’apporto di una sensibilità fortissima, essenziale presupposto alla letteratura nuova del Novecento.

3. Giovanni Pascoli

Quanto fastosa e avventurosa è la vita del D’Annunzio, tanto invece umile e povera di grandi avvenimenti è quella del Pascoli: una vita di professore e di uomo di modesta fortuna, di piccolo borghese chiuso nel cerchio struggente dei ricordi e delle sventure familiari e di un quasi morboso affetto per le sorelle che lo accompagnarono nella sua vita e di rare amicizie spesso adombrate da una ipersensibilità eccessiva e non priva di diffidenze e di scontentezze profonde.

La vita

Nato il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna in una famiglia numerosa, di piccola borghesia (il padre era amministratore di una tenuta dei Torlonia), il fanciullo crebbe fra la vita in campagna e in famiglia e gli studi medi a Urbino, fra il ’62 e il ’71, nel collegio degli Scolopi. Ma già nel ’67 questo modesto e dolce ritmo di vita venne, tra infanzia e adolescenza, tragicamente scosso quando il padre Ruggero fu ucciso (il 10 agosto di quell’anno) da mano rimasta ignota (anche se il Pascoli ritenne, ma senza prove, di poter individuare l’uccisore in colui che aspirava a prendere il posto di amministratore ricoperto dal padre) mentre tornava dalla fiera di Cesena alla sua casa. Quella tragica morte fu il trauma profondo di tutta la vita pascoliana e ad essa seguí rapidamente la morte della madre e la progressiva rovina economica dei sette orfani, che obbligò il Pascoli a lasciare il collegio e a continuare faticosamente gli studi liceali (a Rimini e a Firenze) finché vinse una borsa di studio per l’Università di Bologna, dopo un concorso in cui esaminatore fu il Carducci. Cosí il giovane, appassionato per gli studi letterari, poté formarsi, alla scuola del Carducci, del latinista Gandino, del grecista Pelliccioni, una solida preparazione umanistica già avviata nel periodo liceale. Ma, dopo i primi due anni di Università, le crescenti ristrettezze economiche familiari e la morte del fratello maggiore, Giacomo, lo costrinsero a trascurare gli studi universitari e a cercar lavoro di lezioni private, mentre un forte ma generico sdegno umanitario, un moto di ribellione alle ingiustizie sociali avvalorato dalla esperienza delle sventure familiari, lo avvicinarono alle nuove organizzazioni anarchico-socialiste particolarmente attive in Bologna ad opera di Andrea Costa, di cui il Pascoli divenne amico. Avendo partecipato ad una manifestazione in favore del Passannante, che aveva attentato alla vita di Umberto I, venne arrestato, nel ’79, e passò tre mesi in carcere prima di essere assolto.

Anche questa vicenda nel carattere poco forte e virile del Pascoli segnò piú un’ulteriore amarezza che non una spinta ad impegno politico da allora praticamente abbandonato, mentre il suo socialismo si sviluppava in un generico bisogno di giustizia sociale, in un umanitarismo poco vigoroso, per venir poi (sull’onda delle tendenze nazionalistiche crescenti) a configurarsi in una specie di dubbio e pericoloso socialismo nazionale che porterà il Pascoli, verso la fine della sua vita, a sostenere la campagna di Libia, come giusta lotta di una nazione povera e umiliata e oppressa dalle grandi nazioni detentrici di ricchezza e potenza, in un discorso, La grande proletaria s’è mossa, che ben dimostra la estrema debolezza di concetti politici e filosofici del Pascoli e la prevalenza del nazionalismo sul suo debole e vago socialismo.

Ritornato agli studi universitari e laureatosi nell’82, iniziò la sua lunga professione di insegnante, prima di liceo (a Matera, Massa, Livorno) fino al ’95, poi di università come professore di grammatica greca e latina a Bologna (1895-1898), di letteratura latina a Messina (1898-1902), di grammatica greca e latina a Pisa (1903-1905), di letteratura italiana, successore del Carducci, a Bologna dal 1905 alla morte avvenuta il 6 aprile 1912. Dal 1884 aveva preso con sé le due sorelle nubili, Ida e Maria, e con la seconda (la prima si sposò undici anni dopo) rimase sempre, passando con lei i mesi liberi dall’insegnamento (dal ’95 in poi) in una casetta acquistata a Castelvecchio, vicino a Barga in Garfagnana, dove egli poté riprendere le care abitudini di vita in campagna a cui era legato dall’esperienza e dai ricordi nostalgici dell’infanzia e dell’adolescenza.

La poetica pascoliana

Questa stessa forma di vita di piccolo-borghese, di campagnolo, di uomo negato alle grandi avventure e alle forti esperienze (anche se tutt’altro che privo di successo per i suoi componimenti latini piú volte premiati agli accademici concorsi di Amsterdam), reclinato su se stesso, sulla sua vicenda familiare sventurata, dilatato ad un sentimento di infelicità e di angoscia di tutta l’umanità e compensato solo da umili e pure gioie nate nel contatto con una realtà non esuberante e vitale (come quella che attraversa il D’Annunzio), costituita da particolari modesti fra naturali e segreti, ben corrisponde al nucleo piú caratteristico della poesia pascoliana che si realizza nella espressione lirica piú immediata e non in costruzioni romanzesche o teatrali da cui il Pascoli restò interamente lontano, poco concedendo alla prosa, il cui uso, tutto sommato, appare a lui poco congeniale e riflette, quando l’adopera in scritti di riflessione sull’arte o di tentativi critici come i volumi di interpretazione dantesca, un impaccio e una debolezza costruttiva corrispondente al suo scarso vigore intellettuale e alla sua vocazione lirica, per lo piú essa stessa frammentaria e inadatta a forme di vera costruzione poematica, pur tentata specie nel piú tardo periodo della sua attività.

Cosí il suo decadentismo (ché in tale dimensione è pur certo fortemente inserito il Pascoli) ha, di fronte a quello dannunziano, qualcosa di piú indigeno e provinciale, di piú legato alla tradizione umanistica, alla consuetudine con la letteratura greca e latina, anche se non si può certo negare certa conoscenza della poesia straniera moderna e certe consonanze con la ricerca della poesia come voce del mistero che è propria di tanta poesia decadente europea. E insieme la pascoliana visione del mondo (pur nei suoi apparenti svolgimenti velleitari specie nel piú tardo periodo), mentre riflette in sé tanti elementi della crisi postrisorgimentale, della caduta di grandi e forti ideali, le difficoltà e l’impazienza del Pascoli entro la cultura positivistica e scientifica di cui egli avverte i limiti e l’inadeguatezza a colmare il mistero che circonda l’uomo, svolge tali motivi e un fondamentale irrazionalismo decadente in un senso sfiduciato e rassegnato, in una poco virile e dolciastra pietà umanitaria («è la pietà che l’uomo all’uom piú deve»), in un sentimentalismo spesso insopportabile, in una vitalità fra dolente e femminea che si salva e risolve davvero solo nella evasione dagli impegni e responsabilità della civiltà mediante la comunione dell’uomo con la natura e le sue entità piú umili, schiette, pure, e mediante la poesia che questa comunione esprime in una coerente immediatezza e schiettezza sensibile, in un gusto anzitutto di particolari minuti e apparentemente comuni e impoetici, delle impressioni e sensazioni piú schiette e autentiche.

Da qui nasce la fondamentale prospettiva poetica del Pascoli, che lo scrittore cercò di spiegare e proporre come una generale giustificazione della poesia e della natura di questa, ma che in realtà è solo la sua personalissima idea della poesia e la direzione da lui prevalentemente seguita nella pratica attuazione della sua opera poetica. Si tratta di quello scritto in prosa, Il fanciullino, che tanto dice sulla poetica pascoliana e sui caratteri particolari del suo decadentismo impressionistico-suggestivo, sul suo fondamentale irrazionalismo, sul suo gusto delle cose e delle parole che le individuano nella loro piú varia e minuta realtà. Per il Pascoli il poeta non è il «superuomo» e l’«immaginifico» dannunziano, ma viceversa è l’uomo che ascolta ed esprime la voce intima e pura del fanciullino che egli porta in sé e che non è attratto dai problemi gravi, dalle vicende solenni della storia e della vita, dai sentimenti maturi dell’amore, ma dai particolari piú minuti e sensibili, dalle cose nel loro rilievo visivo e auditivo, dalla poesia che sta segreta nelle cose e che gli occhi ingenui del fanciullino percepiscono tanto meglio di quelli dell’uomo maturo e deformato dalla cultura e dalla civiltà. Sicché «qualunque soggetto può essere contemplato dagli occhi profondi del fanciullo interiore, qualunque tenera cosa può in quegli occhi parere grandissima». Per questo la poesia, come il fanciullino, ingrandisce le cose piccole e impiccolisce le grandi cogliendo di queste i particolari piú minuti ed evidenziandoli immaginosamente, cosí come essa penetra nella psicologia umana cogliendone le sfumature piú recondite e semplificandone con ingenua purezza gli elementi piú complessi e maturi.

La poesia cosí – in contrasto con una tradizione che troppo ha cercato il grandioso e l’artificioso e ha trascurato la purezza di una lirica fatta di sensazioni e impressioni immediate e schiette – deve ora riconquistare il suo ufficio di pura liricità, di elaborazione (ché il Pascoli non dimentica certo l’aspetto di lavoro e di studio letterario e umanistico) di impressioni liriche immediate e precise: ma un’elaborazione, si badi, che rafforzi, non alteri, quella essenziale purezza e schiettezza dei particolari, delle sensazioni, delle impressioni. A ciò sarà necessario anche un linguaggio non aulico e limitato, ma ricchissimo di parole che corrispondano, fresche e precise, alle piccole cose naturali, alla loro immensa varietà, sino a coniare – dove le parole già non esistano – vocaboli onomatopeici che rendano il suono particolare dei vari uccelli o dei vari rumori della realtà. «S’ha sempre a dire uccelli, sí di quelli che fanno tottaví, e sí di quelli che fanno crocrò?». Tanto che in alcuni saggi sul Leopardi il Pascoli giunse a rimproverare il grande poeta recanatese di indeterminatezza e di falsità perché spesso non distinse i vari fiori o i vari uccelli, e cosí non «colse quel particolare nel quale è, per cosí dire, come in una cellula speciale, l’esplosione poetica delle cose», e dato che «la poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito fuori e dentro di noi».

Si badi bene: «fuori e dentro di noi». Perché se la poesia pascoliana mira anzitutto a «vedere e udire» (e a rendere poeticamente la visione e il suono delle cose reali), essa non manca certo di una sua disposizione ad auscultare e rendere la vita minuta e recondita della sensibilità psichica, anche se in questa direzione piú facile è lo scadimento di quella poesia in sentimentalismo dolciastro e in conclusioni e sentenze retoriche, fiacche, generiche. Cosí come, quando il «fanciullino» pascoliano vuol farsi cantore epico o cede il posto a un maestro sentenzioso e a un predicatore di lezioni umane, la poesia pascoliana decade facilmente in artefatta ingenuità fanciullesca e in oratoria, la cui intrinseca debolezza è invano coperta da una certa voce grossa e falsamente virile.

Non che con ciò si vogliano negare certi effetti pur poetici entro la produzione che piú si discosta dalla condizione piú congeniale della poetica del fanciullino, e si voglia ridurre il Pascoli solo alla misura del «poeta come fanciullo», ma certo non solo le poesie piú veramente pascoliane saranno quelle in cui vive soprattutto una liricità libera da grossi problemi e dal peso di impianti poematici e di intenzioni piú grandiose, ma anche nella produzione piú impegnata entro schemi e simboli storici, entro argomenti esortativi e profetici da vate, la poesia migliore sgorgherà pur sempre da un fondo essenziale di sensibilità, di stupore, e non da una complessa collaborazione di fantasia e di pensiero, come avveniva, ad esempio, nel grandissimo Leopardi, ma anche in un Foscolo o in un Manzoni. E del resto, in questa poesia repugnante alla costruzione complessa, tutta affidata alla sensibilità, alla libera liricità delle cose e dei sentimenti piú immediati, consistono certo la maggior novità della poesia pascoliana, la sua importanza nel passaggio dalla poesia ottocentesca a quella moderna, la sua pertinenza al decadentismo italiano, nel suo irrazionalismo e nel suo rifiuto eccessivo, ma storicamente importante, di una letteratura troppo aulica, troppo incrostata di forme di linguaggio tradizionale che avevano finito spesso per ottundere la freschezza e la vibrazione genuina di una nuova sensibilità.

Lo svolgimento della poesia pascoliana

Di questa freschissima e libera sensibilità prima prova (dopo molte poesie piú giovanili che rappresentano l’apprendistato del poeta fra echi piú tradizionali e primi tentativi piú originali) il volume pubblicato nel 1891 con il titolo ben sintomatico di Myricae (le umili e basse tamerici già care al Virgilio bucolico e opposte, nel loro significato di cose naturali e modeste e perciò cosí poetiche, agli alberi piú ricchi, imponenti e illustrati dalla poesia tradizionale) e composto di componimenti brevissimi e atteggiati come frammenti lirici tutti volti a cogliere e a rendere, senza complicazioni di racconto e di commento, impressioni di paesaggi campestri, di scene quotidiane e popolari, di volti fanciulleschi, di azioni umili e schiette con una tecnica di cose viste e udite nella loro immediatezza e pure capace di farne vibrare la suggestione, il fascino lirico, l’alone fantastico e sentimentale, spesso acutamente nostalgico e quasi struggente.

Sicché non si tratta di un semplice impressionismo naturalistico e realistico, ma di un impressionismo lirico che fa lievitare nel senso delle cose piú immediate una specie di piú riposto senso allusivo che dalla visività fresca e precisa fa scaturire una musicalità limpida e dolce, piú malinconica che gioiosa. Come esemplarmente può dimostrare la breve poesia Lavandare in cui il quadro nitidissimo del campo mezzo grigio e mezzo nero (perché in parte arato e in parte no) viene poeticamente animato dall’incontro fra l’impressione suggestiva dei rumori delle lavandare, le loro cantilene popolari e il malinconico sentimento di abbandono che accomuna l’immagine diretta dell’aratro lasciato nel campo e quella indiretta e allusiva che dello stesso aratro propone la cantilena di un’innamorata abbandonata.

Ed ecco: proprio in questo esempio può ben riscontrarsi la singolare misura, l’equilibrio sicuro della poesia di Myricae, in cui l’impressione delle cose reali e la suggestione lirica piú interna aderiscono fra loro senza nessuna prevaricazione del sentimentalismo e della rappresentazione impressionistica. In tal senso quel primo volume rimane in certo senso insuperato per misura, equilibrio e novità di una poesia che rappresenta l’«esplosione lirica delle cose» (per servirsi di un’espressione citata nel discorso sul «Fanciullino») in modi cosí poco vistosi, cosí discreti e intimi.

Tuttavia la poesia pascoliana poteva ancora approfondirsi, sviluppandosi piú fortemente, ma senza perdere il contatto unitario fra senso delle cose e sentimento personale del poeta, come avvenne nei migliori componimenti del nuovo volume I canti di Castelvecchio (1903), in cui la malinconia che circola entro l’impressionismo lirico di Myricae piú direttamente si chiarisce e si raccorda con il personale, dolente pessimismo del Pascoli e con il suo nostalgico vagheggiamento dell’infanzia, del caldo cerchio di affetti familiari, del fresco contatto con il mondo georgico, rotto dalle sventure, dal trauma fondamentale della morte del padre che già in Myricae aveva trovato un’espressione cosí delicata e sommessa nella poesia X agosto e che ora si esprime piú compiutamente o nel nostalgico e lieto-dolente ricordo della fanciullezza nel collegio di Urbino (L’aquilone) o nella rievocazione inquieta e trepida di un colloquio misterioso e pur limpido fra la madre e la cavallina che riportò a casa il cadavere del padre assassinato (La cavalla storna).

Pene segrete e dolcezza di un’età beata, l’infanzia, alimentano (senza perciò escludere altri argomenti e soggetti) una poesia in cui il senso delle cose diventa sempre piú allusivo e suggestivo, lievitato da un senso piú intimo del mistero della vita nei dolori e nelle gioie degli uomini. Nascerà cosí la grazia squisita e leggera di una poesia come Valentino che accomuna la letizia spontanea del povero fanciullo vestito a festa e degli uccelli ugualmente inconsapevoli della possibilità di gioie maggiori di quelle semplici e istintive da loro godute e, ben piú in alto, nascerà la perfetta e suggestiva bellezza del Gelsomino notturno, in cui l’impressionismo lirico si sviluppa in un simbolismo poetico di fertile modernità, che non stacca mai il simbolo, il senso piú segreto della sua estrinsecazione in note e impressioni visive e auditive limpide e sempre ben percepibili, mai astratte, sforzate fuori della sensibilità, del senso fresco e vivo delle cose.

Poi il prevalere della tendenza simbolica e di una volontà piú costruttiva e sentenziosa portano il Pascoli a svolgimenti di grande interesse (specie pensando ad un avvicinamento, pur sempre limitato, alle forme piú simboliche e mistico-sensuali del decadentismo europeo) e a risultati spesso di indubbia efficacia, ma anche a pericolose tentazioni oratorie (poi sempre piú esplicite nell’ultima fase di innografo e vate) e a una certa forzatura delle sue qualità piú schiette e genuine in forme di sensibilità sempre piú raffinata e fra morbosa e leziosa.

Cosí non si vorrà certo negare il fascino e l’effetto di un componimento (nei Primi poemetti del 1905) come Digitale purpureo, che tende a creare un’atmosfera fra languida e misteriosa, fortemente decadente, un clima fra innocente e morboso, dominato dal misterioso fiore che uccide con il suo profumo malefico: ed è simbolo della passione erotica di cui è preda una delle due educande dialoganti sullo sfondo suggestivo del monastero isolato fra le montagne. Ma si dovrà pure osservare quanto di piú artefatto e di falso si insinua nella poesia pascoliana, quanto di effetto voluto vizii quell’atmosfera fra ingenua e gravida di mistero e di presentimenti di un ignoto orrore.

E cosí, per altro verso, nei Due fanciulli sarà facile osservare come alla scena sensibile e viva dell’improvviso litigio e della pacificazione dei due fanciulli segua una conclusione esortativa, umanitaria, fiacca e retorica che ben indica il prevalere di velleità superiori alle vere forze del poeta.

Queste velleità di vate umanitario e nazionale si accrescono nelle ultime raccolte di Odi e Inni (1906), di Nuovi poemetti (1909) e specie in quelle di Poemi italici (1911) e Poemi del Risorgimento (1911), che esaltano grandi figure del passato italiano, mentre nelle Canzoni di Re Enzio (1909) il Pascoli si applica ad una rievocazione epico-leggendaria, mescolata ad elementi fiabeschi e intimistici, della infelice vita del figlio di Federico II di Svevia, guerriero e poeta, finito prigioniero dei bolognesi, arricchendo le risorse del linguaggio con abili ma artificiose e virtuosistiche riprese dell’italiano medievale e arcaico che tanto alterano le forme piú nuove e autentiche del suo linguaggio lirico nato dall’attrito della sua acutissima sensibilità con le cose della realtà e con il loro fermento lirico, con la loro «esplosione lirica».

Entro questa linea di crescente involuzione poetica (in cui è pur dato al lettore attento cogliere momenti di piú sincera poesia) vanno considerati particolarmente quei Poemi conviviali (1904) in cui la cultura umanistica e classicistica del Pascoli, il suo amore per Omero (anche se per un Omero molto rivisto alla luce della poetica del «fanciullino» come vate che nelle gesta eroiche coglie con animo ingenuo e commosso i particolari piú meravigliosi, degustati nel loro fascino di impressioni stupefacenti e pur percepibili nella loro minuta e fresca realtà), sostengono un tipo di poesia elegantissima, di squisita fattura formale, in cui il mondo classico viene riespresso in una moderna e decadente sensibilità, che lo priva della sua virile sostanza, ma insieme ne trae – in mezzo a piú letterarie e virtuosistiche descrizioni e a velleitarie intenzioni sentenziose – accenti singolari di suggestione musicale e sognante, come è il caso ben significativo del finale del poemetto Alexandros, che ritrae l’eroe conquistatore stupito e piangente sul limite ultimo e misterioso delle sue immense e vane conquiste e, ancor piú suggestivamente, lo smarrimento sognante di sua madre fra le sorelle che tessono lane preziose per l’eroe lontano.

Cosí la storia e la leggenda si fondono e si dissolvono in sogni e visioni della sensibilità decadente, fra preziosa e suggestiva; come avviene anche in quei componimenti poetici in latino, Carmina, in cui il Pascoli riesce insieme a piegare l’antica lingua morta in una sua singolare vita sensibilissima e moderna (altro aspetto della vocazione pascoliana all’uso e all’impiego di vari tipi di linguaggio in un straordinario adattamento alla sua forte libertà e novità linguistica) e a trasporre quadri e sentimenti del mondo romano (specie nel momento di crisi e di passaggio dal paganesimo al cristianesimo e alla sua religiosità umanitaria e fraterna) in un’atmosfera di sensibilità moderna, piena di sfumature delicate e tenere, che a volte (secondo la difficile organicità della poesia pascoliana) trovano un equilibrio e una voce suadente e soave, a volte invece sfiorano la leziosaggine e il sentimentalismo.

Privo di un senso profondo della storia, della cultura, del pensiero e dei loro problemi, quanto dotato di una acutissima sensibilità, ben può capirsi infine come ben poco aggiungano all’opera del Pascoli i suoi scritti in prosa (una prosa senza nerbo e senza vigore) e quei ponderosi e pletorici volumi di esegesi della Divina Commedia, in cui il debolissimo senso critico e storico del Pascoli cede a una confusa prospettiva di totale interpretazione allegorica e simbolica insostenibile e interessante solo nei riguardi del Pascoli poeta nella sua stessa tendenza, spesso cosí fuorviante, ad una poesia simbolica.

4. Antonio Fogazzaro

Accanto alle maggiori esperienze decadenti di D’Annunzio e Pascoli si colloca, in una posizione piú complicata da problemi religiosi e spiritualistici cosí come da forti componenti di un realismo bonario e venato di humour (che in parte si richiama al realismo manzoniano, in parte si alimenta della lezione del verismo pur fieramente combattuto nella sua apparente mancanza di «poesia» e di indagine psicologica piú raffinata e profonda), la singolare esperienza decadente di Antonio Fogazzaro (nato a Vicenza nel 1842 e morto nel 1911) il quale, dopo giovanili tentativi poetici, cercò nel romanzo lo strumento di messaggio dei suoi ideali e della sua missione di scrittore in lotta difficile e confusa con il materialismo e con la chiusura della Chiesa cattolica attardata e bisognosa invece, per lui, di accordare fede, progresso scientifico e prospettive di un moderato progresso politico e sociale, e insieme lo strumento di espressione del suo mondo interiore dominato da velleitarie aspirazioni di bellezza, bontà, fede religiosa e da tormenti e conflitti fra tali aspirazioni e un’esasperata sensualità.

Affiatato con una parte cospicua del pubblico contemporaneo, preso anch’esso fra esigenze religiose e spiritualistiche rinascenti, bisognoso di adeguare la fede tradizionale ai progressi scientifici, di conciliare fede e scienza, fede e aperture sociali e nazionali, su di uno sfondo di ambizioni di eleganza e di aristocratico spiritualismo, il romanzo fogazzariano ben rappresentò una versione cattolica del decadentismo e dell’estetismo, confondendo ambiguamente valori spirituali e morbosa sensualità, misticismo e culto della bellezza sensibile e raffinata, prospettive di sacrificio e di missione sociale con un invincibile bisogno dell’io di godere sensazioni elette e insolite, mantenendo una certa nostalgia per il sano e schietto mondo ottocentesco-risorgimentale e nascondendo sotto le prospettive velleitarie di un rinnovamento religioso e sociale un sostanziale conservatorismo particolarmente vivo nell’ambiente provinciale veneto in cui il Fogazzaro si formò e prevalentemente visse la sua esperienza anche umana, segnata, al di là della sua lunga attività di scrittore, da alcune vicende ben pertinenti alla sua direttiva di scrittore cattolico: la sua partecipazione alla rivista cattolico-modernistica «Il rinnovamento», le sue prese di posizione a favore del movimento del «modernismo» (un movimento, non solo italiano, che intendeva appunto modernizzare la Chiesa e rinnovare il cattolicesimo portandolo ad accettare le nuove conquiste scientifiche e l’evoluzionismo darwiniano), la clamorosa condanna di alcuni suoi tardi romanzi (Il Santo e Leila) da parte della Chiesa e la sua sottomissione a tale condanna che ben segnava i limiti delle sue moderate esigenze di rinnovamento religioso e di inserimento dei cattolici nella vita politica italiana.

Perché, tutto sommato, la sua stessa personalità, priva di vero vigore intellettuale e di adeguato coraggio morale, è ben caratteristica di un clima incerto e confuso, di un ambiguo velleitarismo, di un prevalente abbandono a spinte emotive e a sollecitazioni di un’inquieta e morbida sensibilità, e risulta piú capace di provocare con la sua arte emozioni e sensazioni, stati d’animo blandi e incerti e non persuasioni profonde, che non di costruire salde strutture narrative, opere dotate di un’intima necessità e resistenti al di là della moda e della contingenza che le rese famose e ammirate come l’esempio rinnovatore di un romanzo spiritualista che avrebbe rotto vittoriosamente e positivamente i limiti naturalistici del romanzo verista, impoetico e privo di risorse e vibrazioni morali e spirituali.

Già nella sua formazione e nelle prime sue opere (le liriche di Valsolda e il poemetto Miranda) il Fogazzaro era stato attratto dalle forme piú liricheggianti e sentimentali (di un sentimentalismo e di un lirismo già volti ad una sensibilità morbosa e sensuale) del tardo romanticismo italiano e straniero, di cui aveva poi esasperato nel suo primo romanzo, dell’81, Malombra, i toni piú misteriosi e allucinati, con una corrispondenza fra stati d’animo, cosí inquieti da sfociare nella follia, e paesaggio tetro e misterioso capace certo di un suo forte fascino suggestivo (in questo senso Malombra è forse il libro piú intenso del Fogazzaro) e di una sorta di risoluzione musicale della prosa che sembra condurre da un estremo romanticismo a condizioni del vero e proprio decadentismo. In quel romanzo si muovono e si dibattono personaggi abnormi, segnati da un triste destino di eccezione, da un dramma psicologico, da una sensibilità inquieta in cui si frantuma e disgrega la loro personalità, da un conflitto fra vaghi ideali e torbida sensualità. Tale situazione si ripercuote e si complica con piú aperte velleità ideologiche in romanzi come il Mistero di un poeta (1888) e prima ancora come Daniele Cortis (1885), nel quale piú direttamente intervengono le note del personale conflitto fogazzariano tra fede e sensualità erotica: il dramma di Elena presa tra fedeltà di donna religiosa ad un marito volgare e cinico e la passione per il cugino Daniele Cortis, tipico eroe fogazzariano, velleitario e incerto, portatore di ideali politico-religiosi che egli non riesce a concretare e realizzare, dominato com’è dalla passione erotica che lo turba e limita la sua dubbia passione civile e lo chiude nel suo personale dramma spirituale-sensuale, nel clima morbido delle sue sensazioni e dei suoi gusti estetizzanti e aristocratici.

Tanto piú la torbida mescolanza di fede religiosa nella sua versione di cattolicesimo modernista e di sensualità erotica compressa, ma non vinta, si esprime nei romanzi piú tardi, Piccolo mondo moderno (1900), Il Santo (1906), Leila (1911), pallide rappresentazioni di drammi che vorrebbero essere sublimi e scadono invece sempre piú in una narrazione fiacca, invano insaporita da certo gusto di descrizione di ambiente, di personaggi minori macchiettistici e umoristici. La narrazione sempre piú si sfilaccia e cede a eloquenti prediche che illustrano gli ideali del cattolicesimo fogazzariano, le sue velleità di riforma della Chiesa alla fine cosí timide nella loro apparente audacia, compenso cosí debole di un fondo di buon senso conservatore che poteva far presa su di un pubblico borghese e cattolico, sostanzialmente conservatore, ammantandosi di pretese ribelli, di raffinata ed elegante spiritualità, di brividi e profumi peccaminosi contenuti e complicati da uno spiritualismo dilettantesco e da una fede morbida e signorile, lontanissima dalla sobrietà energica e dallo spirito democratico del piú autentico messaggio cristiano.

Con tali opere il Fogazzaro contribuiva alla diffusione del clima decadente ed estetizzante, del suo spiritualismo cosí ambiguo e sensuale, al prevalere della sensualità sulla forza costruttiva del sentimento nutrito di pensiero e di forza morale. Né d’altra parte egli aveva l’energia sensuale e immaginosa del D’Annunzio, la liricità intensa del Pascoli.

E tuttavia sarebbe ben incompleto e assurdo un ritratto di questo scrittore se non si considerasse, pur senza entusiasmi spesso troppo esagerati, sia quanto di arricchimento di scavo psicologico pur v’era nella sua narrativa decadente, sia il singolare risultato di un romanzo, Piccolo mondo antico del 1895, che pare isolarsi dal resto della sua produzione e quasi allontanarsene per il suo equilibrio narrativo, per la sua fusione di tono, per la sua pacata sobrietà, per la sua vena umoristica e realistica, per il senso convincente di un dramma umano risolto entro convinzioni salde e medie e in un quadro storico misurato ed efficace.

In realtà lo stesso ritorno nel passato agevola un momento felice di equilibrio fra un gusto di realismo moderato, di saggezza ancorata a valori tradizionali borghesi e risorgimentali, di benevolo umorismo macchiettistico e la tendenza fogazzariana al dramma di anime, privato dei suoi eccessi morbosi e delle sue complicazioni mistico-sensuali.

Tale dramma di anime s’incentra nel personaggio piú perplesso e debole di Franco Maironi, credente e animato da spiriti liberali-patriottici, e in quello tanto piú forte e incisivo della moglie Luisa, razionalista e piú pronta a sdegni e impazienze di fronte a ingiustizie e ipocrisie convenzionali quali sono quelle del mondo rappresentato, con felicissima mano, dalla nonna di Franco, vecchia aristocratica austriacante, bigotta, egoista, e dei suoi adulatori servili e ostili alla giovane coppia. Una vicenda tragica, la morte improvvisa della figlioletta Ombretta, aggrava ed esaspera le difficoltà dell’unione coniugale di Luisa e Franco, le loro diversità di visione della vita e di carattere, finché – agevolati dalla lezione di saggezza dello zio di Luisa, Pietro, e dalla vicenda risorgimentale che induce Franco all’espatrio e poi alla partecipazione alla guerra del ’59 – i due giovani vengono riavvicinati da una pratica convergenza dei loro diversi ideali in una fede attiva nella vita e da un amore piú profondo che rafforza Franco e scioglie la durezza moralistica di Luisa.

Tutta la vicenda è rivista con uno spirito di serena nostalgia e amalgama armoniosamente la vicenda centrale e le scene del piccolo ambiente paesano, i personaggi centrali e quelli minori (su cui si esercita un umorismo fresco e misurato), fino ad una mescolanza felice di lingua nazionale e di battute dialettali.

Ma, se il risultato artistico di gran lunga piú rilevante del Fogazzaro consiste in quel felice romanzo, l’importanza storica dello scrittore vicentino risiede indubbiamente nello sviluppo di quella narrativa liricheggiante, permeata di velleità spiritualistiche, di spinta di una sensibilità inquieta e morbosa, fra religione e sensualità, che rappresenta un’ulteriore rottura decadente della salda struttura narrativa veristica, un’apertura, anche se ambigua e piena di remore provinciali, allo scandaglio in una psicologia complicata entro una crisi di valori, surrogati, sotto la maschera di nuovi e piú alti ideali, dalla morbida prepotenza delle passioni e degli istinti, che, quanto piú repressi, tanto piú investono morbosamente ogni comportamento morale e spirituale.

5. Italo Svevo

Ciò che il decadentismo opera nella distruzione del mondo ottocentesco, nell’apertura ad una visione della vita tormentata e scissa (presupposto di una libertà ardua e di una nuova civiltà anticonvenzionale e costruita su piú intere e complesse nozioni dell’uomo e sulla crisi consumata dalla civiltà borghese: crisi che è appunto del decadentismo) e nella instaurazione di una letteratura antischematica e collaboratrice all’esplicitazione della crisi sopraricordata, trova – ben al di là dell’opera del D’Annunzio, del Pascoli e del Fogazzaro – un’espressione tanto piú profonda, rivoluzionaria, accordata piú concretamente con i motivi del grande decadentismo europeo, nell’opera dei due maggiori scrittori di primo Novecento: Svevo e Pirandello. Scrittori la cui novità è cosí forte e superiore alle possibilità di comprensione della stessa critica primo-novecentesca che solo piú recentemente se ne è potuto meglio riconoscere l’eccezionale forza di rottura e la grandezza artistica a lungo combattuta, ignorata, incompresa anche per l’antico, persistente vizio italiano di valutazioni troppo formalistiche, troppo ferme a pregiudizi letterari della «buona scrittura» o della ripugnanza ad accettare problematiche impegnative, troppo facilmente degradate a intellettualismo in nome di un purismo estetico intransigente, fautore della bella pagina e dell’immagine compiuta e nitida. Cosí la grandezza dell’opera narrativa di Italo Svevo fu intuita solo tardi, poco prima della morte dell’autore, e anche allora fu a lungo sottoposta alla censura miope del suo «cattivo stile», apparentemente stentato e incerto, proprio, si disse, di uno scrittore senza tradizione, impacciato dalla sua stessa condizione di triestino di origine tedesca, originale sí, ma non dotato del possesso di un sicuro strumento espressivo.

Italo Svevo (pseudonimo assunto da Ettore Schmitz appunto a significare la sua italianità e la sua origine germanica) nacque a Trieste nel 1861 e a Trieste – dopo primi studi condotti in Germania – trascorse la sua vita fino alla morte avvenuta per un incidente d’auto nel 1928, lavorando prima come impiegato di banca e poi occupandosi della fabbrica del suocero, ma insieme portando avanti – pur fra delusioni per gli insuccessi dei suoi romanzi e un lungo silenzio precedente il suo ultimo capolavoro – una originalissima attività di scrittore in cui si traducevano oggettivamente la sua personale esperienza di vita e una concezione umana e artistica alimentata anche dalla larga conoscenza della letteratura europea fra il naturalismo e il decadentismo nelle sue espressioni piú profonde, rinnovatrici, rivelatrici della condizione di una crisi storica ed esistenziale e quindi di una visione pessimistica e drammatica dell’uomo avido e insieme incapace di felicità, desideroso e incapace di agire e di vivere, teso al proprio egoistico «utile» meschino e mascherato da ipocrisie e convenzioni accentuate dal sistema di vita borghese e capitalistico, dalle sue contraddizioni e inquietudini e dai loro sbocchi nella guerra e nella feroce conservazione di un ordine crudele e ingiusto.

Tale visione negativa, amara e rafforzata da un umorismo scettico e critico, cosí evidente nelle stesse pagine autobiografiche del cospicuo epistolario sveviano anche là dove essa appare celata sotto la tranquillità e agiatezza di una vita confortata dagli affetti domestici, trova la sua alta espressione e il suo sviluppo complesso e sofferto (l’uomo e lo scrittore fanno tutt’uno) nell’opera narrativa sveviana, folta di opere minori, ma soprattutto scandita nei tre romanzi che si succedono a varia distanza di anni (Una vita del 1892, Senilità del 1898, La coscienza di Zeno del 1923) come le tre tappe fondamentali dell’esperienza umana e artistica dello scrittore, come le tre immagini fondamentali dello scrittore-uomo nel suo essenziale e profondo autobiografismo e nelle condizioni ambientali, personali, storiche, trasposte in quell’opera con arte lucida e distaccata, ma mai calligrafica e formalistica.

Nel primo romanzo, piú intonato a modi veristici e naturalistici italiani ed europei (abbiamo già detto come la conoscenza sveviana della letteratura europea sia vasta e superiore a quella di altri decadenti piú provinciali, aperta dalla prima educazione in Germania e accresciuta dalla stessa situazione di Trieste a cavallo fra Italia e l’Europa centrale), lo Svevo impostava il suo angoscioso problema di uomo del decadentismo, di isolato e disadattato alla vita e all’azione (condizione agevolata dalla stessa condizione di disagio dello scrittore, allora impiegato bancario, inserito controvoglia in uno sgradito ambiente piccolo-borghese meschino e pieno di scaltro attivismo e di dinamismo vitale) che si traduce nel personaggio centrale, Alfonso Nitti, incapace di agire, di affermare in qualsiasi modo la sua personalità, di essere come gli altri, di acquistare la «salute» e la saggezza, seppur meschina, degli altri, di rompere la sua estraneità al mondo che lo circonda, di abbandonarsi interamente all’amore, di realizzare le sue velleità culturali e letterarie, e perciò (nella sua lucida e impietosa rappresentazione oggettiva da parte dello scrittore e nella sua stessa capacità autocritica di personaggio) destinato alla sconfitta e a un suicidio che non è atto di ribellione ma mesto e rassegnato abbandono di un’impari lotta.

Il problema del rapporto fra uomo e società, dell’uomo velleitario e inetto a vivere e ad agire si ripresenta con una maggiore complessità (cui corrisponde una tecnica narrativa ugualmente piú complessa e analitica) nel secondo romanzo, Senilità, in cui il protagonista, Emilio Brentani, appare insieme piú ricco di immaginazione e di provvisori compensi di sogno (fino a fantasticherie su di una futura società giusta e onesta che si ricollegano a un interesse personale dello Svevo per il problema sociale documentato da un isolato, ma interessante racconto-parabola La tribú, pubblicato nel 1897 sulla rivista socialista «La critica sociale»), piú attento alle lezioni di «saggezza» dell’amico, lo scultore Stefano Balli, piú sensibile all’avvertimento dell’altrui infelicità (come quella disperata della sorella Amalia priva anche di una semplice illusione amorosa), ma non perciò egli è veramente capace di vivere, di realizzare concretamente il suo amore per la volubile, menzognera, traditrice Angiolina: sicché egli potrà sfuggire al suicidio del Nitti di Una vita solo rifugiandosi nel sogno, nell’immagine ideale di un’Angiolina ben diversa da quella reale, da cui si è distaccato dopo tanti inganni e delusioni, facendone un simbolo della giovinezza, un grato e illusorio ricordo che porterà qualche conforto alla crescente e dolorosa senilità.

Cosí in questo romanzo, ravvivato anche dai freschi colori di una Trieste alacre e allegra, che rompono la piú tetra e opaca atmosfera che interamente dominava il primo romanzo, lo Svevo giunge ad una specie di provvisorio e fragile equilibrio del suo personaggio, che proietta i suoi desideri di vita nel sogno e nel ricordo, evitando cosí il risultato tragico della sua inettitudine e della sua pratica sconfitta.

Ma si tratta appunto di un fragilissimo equilibrio e l’ultimo romanzo, il capolavoro piú alto e maturo dello Svevo, La coscienza di Zeno, porta avanti implacabilmente il pessimismo dello scrittore triestino, velandolo sotto un’apparente bonaria ironia e un umorismo lucido e sottile, proprio nello scarto di toni apertamente drammatici, approfondendolo come «coscienza» del male della vita, della sua sostanziale miseria, della sua mancanza di scopo, della sua casualità, del suo carattere di grottesca e imprevedibile avventura, che non merita impegno e appassionamento, ma ironica consapevolezza della sua sconsolata realtà.

Al suo capolavoro Svevo giungeva dopo una lunghissima maturazione di nuove esperienze e meditazioni e di nuove letture (fra cui essenziali quelle delle opere del grande fondatore della psicanalisi, Freud, e delle opere narrative dell’irlandese Joyce) che aiutarono la sua nativa e originale tendenza di esplorazione interiore a superare definitivamente i limiti della narrativa oggettiva e di tipo naturalistico e a conquistare una prospettiva e direzione narrativa fondata sul sondaggio della coscienza, delle sue zone piú segrete, delle sue radici nell’inconscio e nel subconscio, sull’analisi interna evidenziata nella tecnica del monologo interiore e del romanzo-diario in prima persona.

Cosí il protagonista-narratore del romanzo, Zeno Cosini, tipico «antieroe» del piú avanzato decadentismo, può acutamente indagare in se stesso (e attraverso se stesso negli altri) e narrare i risultati della sua indagine nella propria coscienza con un’eccezionale capacità critica e autocritica, con un continuo smascheramento dell’origine impura e misera di ogni sentimento, di ogni atto di una vita vissuta senza programmi e senza fedi, fatta di egoismo, di noia, di scetticismo. Né tale è il risultato solo dell’indagine del protagonista in se stesso, ché anche gli altri con cui ha rapporti si rivelano sostanzialmente uguali e spesso anzi inferiori a lui, mancando soprattutto di quella capacità, ben sua (e superiore a quella dei protagonisti dei due precedenti romanzi), di «coscienza», di consapevolezza della loro condizione di inetti e di malati della malattia mortale propria della vita e della sua sostanziale inutilità e meschinità.

Sotto l’apparente indulgenza, l’ironia e l’umorismo tanto crescenti nell’ultimo romanzo, vibra una lucida forza di demistificazione delle apparenze nobili, belle e vitali, dell’effimera luce della vita di cui tuttavia il grande scrittore sa ben cogliere e rendere, nella sua minuta e analitica narrazione, il fascino di fresca e immediata concretezza, creando dall’interno della coscienza e delle sensazioni del protagonista-narratore mirabili squarci del paesaggio triestino, con le sue strade e il suo mare, con i suoi interni popolari e borghesi, con la luce particolare delle varie ore e delle varie stagioni.

Ché malgrado tutto, o meglio in forza della stessa fondamentale visione pessimistica sveviana, un fresco realismo, una vena autentica di sensazioni concrete e vive, corrispondono nei romanzi e nei numerosi racconti e novelle (fra cui spiccano per felicità artistica La novella del buon vecchio e della bella fanciulla e l’incompiuto e incantevole Corto viaggio sentimentale) ad un’attrazione per la vita reale, per le sue parvenze colorite e dense, di cui lo scrittore pur si compiace quanto piú ne avverte dolorosamente e ironicamente il carattere effimero, caduco, enigmatico.

6. Luigi Pirandello

Alla grande e rivoluzionaria narrativa di Svevo, profonda espressione di un decadentismo che ha approfondito il problema della solitudine dell’uomo moderno e della dolorosa coscienza della sua malattia, fa riscontro, in modi assai diversi e con uno svolgimento ancora piú tormentato e complicato, la grande opera narrativa e teatrale di Luigi Pirandello, in cui la crisi storica ed esistenziale rappresentata dal decadentismo nelle sue forme piú interne e profonde, raggiunge la sua esasperazione tragica che denuda una condizione disperata dell’uomo, intimamente scisso, disgregato, incapace di vera comunicazione con gli altri e di vero possesso della sua stessa personalità entro una realtà altrettanto disgregata, frantumata, in una infinita e caotica molteplicità di fenomeni senza vera ragione e connessione, entro una visione della vita che ha perso ogni criterio di verità e di valore, dato che i vecchi valori ottocenteschi sono crollati e non è dato all’uomo, che vive, soffre, approfondisce tale crisi, crearne dei nuovi, anche se a questo pure vanamente aspira con tentativi vari e per lo piú incoerenti.

Luigi Pirandello, nato ad Agrigento il 28 giugno 1867 da una famiglia di ricca borghesia che poteva vantare tradizioni patriottiche e garibaldine, sviluppò i suoi primi interessi letterari, filologici, filosofici studiando all’Università di Palermo, di Roma e poi a quella di Bonn (con un’esperienza della cultura tedesca che va considerata assai importante nella sua formazione). Poi, in seguito al disastro finanziario dell’azienda paterna e di quello della famiglia della moglie, fu indotto a cercare una sistemazione pratica nell’insegnamento, che esercitò dal 1897 al 1922 come professore prima di stilistica poi di letteratura italiana nel Magistero di Roma, associando tale attività a quella di pubblicista e di scrittore in una vita per lungo tempo priva di successi e resa difficile e tormentata dalla malattia mentale della moglie.

Solo dopo la prima guerra mondiale vennero il grande successo italiano e mondiale del suo teatro, l’impegno di direttore e regista di una propria compagnia teatrale (che, anche per la presenza in essa della grande attrice Marta Abba, diffuse l’opera pirandelliana in tutto il mondo), i riconoscimenti ufficiali (il premio Nobel nel 1934, la nomina nell’Accademia d’Italia nel 1929), che non toccarono però l’intima sostanza di un’esperienza anche biograficamente dolorosa e fondamentalmente solitaria, chiusa dalla morte avvenuta a Roma il 1° dicembre 1936.

Il romanziere e il novellista

L’attività dello scrittore comincia con una produzione di liriche, raccolte nei volumi Mal giocondo (1883-1889), Pasqua di Gea (1891), Elegie renane (1895), che, pur nella ripresa di modi fra carducciani e leopardiani, denunciano una scarsa cura stilistica, un’istintiva volontà di non sacrificare all’eleganza formale il prevalente bisogno di confessione e di verità (volontà che poi diverrà polemica e consapevole contrapposizione alla tradizione letteraria formalistica e al nuovo culto della bellezza proprio del decadentismo estetizzante), e che, in quella prepotente esigenza di verità, di contenuti sofferti, esprimono i primi segni dell’amara visione pirandelliana della vita, vana e dolorosa, i primi scoperti moti di violenta reazione morale contro la corruzione contemporanea (corruzione che investe la misera condizione della terra natale, la Sicilia, e trionfa nella Roma umbertina traditrice per Pirandello degli ideali risorgimentali), i primi avvii ad una rappresentazione oggettiva, ma insieme critica, della pena e della solitudine umane, estesa rapidamente dalle sue ragioni storiche e sociali alla sua piú generale necessità universale.

Tali motivi ritornano nelle opere narrative con cui Pirandello riprendeva sí la lezione di oggettività del verismo, ma per incrinarla e dissolverla in una disposizione piú sua di spezzettamento del «fatto» nella molteplicità infinita dei «casi» umani, di disgregazione e deformazione delle forme oggettive della realtà nella loro casualità ed effimera consistenza, di irruzione di una pietà e di un’ironia corrosiva che vanno ben al di là della compattezza della veristica narrazione «impersonale». Ciò si vede già nel primo romanzo del 1893-1894, L’esclusa, e ancor meglio nelle numerose novelle degli ultimi anni del secolo (raccolte poi, con quelle successive, nelle Novelle per un anno) che – mentre riflettono nel loro fondo l’ancora accresciuta delusione storica dello scrittore sotto l’incalzare di vicende clamorose e drammatiche (gli scandali di alcune banche romane, le sollevazioni popolari in Sicilia e a Milano, sanguinosamente represse) – vengono prospettando sempre piú energicamente, e con l’ausilio della loro tecnica novellistica (cioè di narrazione per frammenti e per casi e situazioni molteplici), una visione sconvolta del mondo, della società, dell’uomo, di una vita priva di vere, consistenti ragioni, irrazionale e assurda, sia che il Pirandello la esamini nell’ambiente borghese-cittadino sia che la consideri in un ambiente siciliano-campestre: ambienti che dan sí luogo a un contrasto fra il grigiore oppressivo della città e della condizione borghese e la luce della campagna e della ingenuità e semplicità degli esseri naturali e schietti, ma che, a ben vedere, riflettono insieme sia un contrasto piú profondo tra falsi valori e pregiudizi della classe ricca e dominante e un disperato bisogno di innocenza e di giustizia della classe diseredata e oppressa, sia, alla fine, un’unica sofferenza umana, una condizione di pena della vita dell’uomo, inevitabilmente solitario, chiuso in se stesso, invano ricercante un’impossibile comunicazione con gli altri e persino internamente scisso in momenti fra di loro separati. Sicché gli uomini di queste novelle, pur variamente incarnati in figure pietose o repellenti, soffrono tutti la pena del vivere, l’incapacità di esser veramente padroni di se stessi, e di aver veri rapporti con gli altri, ugualmente scissi e incapaci di costituirsi in vere e coerenti personalità.

Da tale irrequieta e affollata rappresentazione del caos crudele e casuale della vita e dei singoli individui il Pirandello è portato ad una piú approfondita indagine del problema esistenziale dell’uomo, che trova espressione artistica nel romanzo Il fu Mattia Pascal e tenta una sua diretta sistemazione ideologica nel saggio sull’Umorismo (1906).

Il romanzo immagina un uomo, un impiegato piccolo borghese, che, letta in un giornale la singolare e paradossale notizia della propria morte, si sente improvvisamente libero della prigione della sua condizione civile, della falsa individuazione cui l’aveva inchiodato la società, e cerca di evadere da quella specie di maschera odiata in una libertà anarchica, in una disponibilità illimitata a scelte nuove, e piú congeniali al suo bisogno di amore, di giustizia, di verità, finché successive delusioni impongono alla sua lucida coscienza la conclusione che anche tale ricerca di libertà e di nuove individuazioni è impossibile ed egli decide di tornare nel suo antico ambiente, cosa anche questa impossibile perché la sua riapparizione metterebbe in crisi l’esistenza altrui (specialmente il secondo matrimonio della moglie), sicché egli si manterrà solitario e «ufficialmente» morto, seguitando solo a scrutare spietato e amaro il mondo a cui si sente ormai del tutto estraneo.

Entro tale vicenda eccezionale del suo nuovo personaggio lo scrittore porta avanti fino in fondo un’esperienza essenziale della sua approfondita concezione della vita: l’esperienza tragica dell’impossibilità di vivere in assoluta libertà, di evadere veramente dalla prigione dell’individuazione, della «forma» dei rapporti sociali falsi e menzogneri in cui tutti sono costretti e fuori dei quali invano si può cercare la propria vera e schietta realtà.

Tali conclusioni vengono teorizzate (in una forma di pensiero che non è vera filosofia sistematica, ma riflesso di una tormentata ricerca fra intuizioni e pensiero, drammaticamente sofferta) nel saggio sull’Umorismo che resta fondamentale nella prospettiva della problematica e della poetica pirandelliana, di cui da una parte questo saggio sottolinea i temi essenziali del contrasto fra sentimento illusoriamente costruttivo e ragione critica, demolitrice di ogni convenzione e di ogni illusoria costruzione, fra impulso vitale che si ribella alla prigione del suo esistere convenzionale e implacabile critica razionale che disgrega ogni tentativo di vita effettiva dimostrandone il carattere effimero, inconsistente, e dall’altra polemicamente prospetta un tipo di arte nuova opposta a quella tradizionale. L’arte tradizionale ha composto caratteri consistenti e armonici, ha rappresentato storie compiute e organiche come la vita in cui essa credeva, mentre l’arte nuova deve rappresentare i caratteri e la vita come essi realmente sono e cioè scissi, scomposti, discontinui, casuali, disordinati, rifiutando insieme la retorica aulica e il formalismo che celano il vuoto intellettuale, l’evasione dalla vera realtà, e opponendo allo stile contaminato dalla letterarietà uno «stile di cose», una lingua comune, libera da ogni convenzione tradizionale.

Né si dimentichi, a meglio capire l’importanza di questi anni decisivi nello sviluppo della personalità pirandelliana, la presenza in questo periodo del romanzo I vecchi e i giovani (1909), in cui lo scrittore, rievocando la tragica vicenda della fallita ribellione socialista dei «Fasci siciliani» e la delusione dei giovani di allora (incapaci di superare attivamente la crisi del Risorgimento tradito dalla classe dirigente italiana), rievocava insieme la propria personale delusione storico-sociale posta all’origine della propria piú generale delusione storica ed esistenziale, della propria visione pessimistica e disgregata della realtà e dell’uomo.

Da questa complessa presa di coscienza l’arte di Pirandello trae una nuova forza che si esprime anzitutto nelle nuove e maggiori novelle (in cui piú fusi appaiono l’elemento ideologico e quello narrativo e piú lacerante e improvviso esplode il dramma dei personaggi presi fra bisogno di evasione e di libertà ideale, e coscienza e pena di non esistere se non nelle forme convenzionali, nella prigione della «forma» di cui essi hanno consapevolezza e orrore), per poi trovare lo strumento espressivo piú adatto e congeniale nel teatro, a cui Pirandello si accinse mentre ancora scriveva novelle e in cui ben presto (fra gli anni della prima guerra mondiale e quelli del dopoguerra) si impegnò quasi interamente, salvo qualche sporadico ritorno al romanzo (Si gira del 1915, ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, e Uno, nessuno e centomila, fra 1925-1926).

Il teatro pirandelliano

Il passaggio dalla novellistica (in cui sono contenute in grandissima parte la materia e le situazioni trattate poi in teatro e in cui si può già cogliere un crescere progressivo di procedimenti dialogici e un bisogno di integrazione mimica e scenica che preludono alla vera manifestazione della vocazione teatrale dello scrittore) al teatro ha in sé qualcosa di necessario, specie se si guardi al personaggio pirandelliano che ha intimo bisogno di esprimere nel dialogo e nell’azione (e dunque nella forma teatrale) il suo tormentoso problema di vivere, di trovare una vita autonoma, di riscattare la sua realtà disgregata, di salvarsi dal divenire incessante delle forme effimere dando una dimensione drammatica alla sua sofferenza, alla sua passione e condanna costituita dalla ragione, che lo spinge continuamente a interrogarsi, a smontare ogni convenzione, a rivelare interamente la condizione umana.

Né si tratta di cerebralismo e di intellettualismo astratto e impoetico, come parve a troppi critici colpiti solo dall’incessante tormentoso ragionare dei personaggi pirandelliani, delle sue «maschere nude», che è il titolo sotto il quale Pirandello raccolse i suoi drammi.

Perché, invece (come ha ben visto la migliore critica piú recente e in particolare Leone De Castris), tale ragionare convulso ed esasperato fino al paradosso, anche se potrà condurre a commedie minori e piú scopertamente raziocinanti, è in realtà una forma di profonda passione (e dunque qualcosa di profondamente sentito e vissuto, non di astratto e di freddo) dello scrittore, una forma di tragica sofferenza di una crisi sincera e autentica ben capace di dar luogo ad una singolare poesia aspra e risentita, amara e pietosa, di forte sostanza umana.

E – mentre gli stessi geniali procedimenti teatrali, che tanto influirono sul teatro mondiale piú moderno, non sono escogitazioni a freddo di un semplice tecnico e uomo di teatro (quale pur fu il Pirandello), ma necessari e coerenti modi espressivi della sua intima intuizione tragica – lo stile, il linguaggio adoperato dal drammaturgo, troppo spesso accusato di sciatteria e di incompiutezza stilistica, vanno valutati non solo alla luce della chiara polemica antiletteraria e antiformalistica di Pirandello (che quindi cerca un linguaggio e uno stile privo di ogni ornamento e raffinatezza squisita), ma in relazione alla loro funzione teatrale, alla destinazione, già calcolata dallo scrittore, ad un loro sviluppo totale nella recita teatrale, nell’effetto di una parola che non va letta, ma udita, appresa nell’insieme del movimento e dell’azione scenica. Sicché anche chi legge un dramma di Pirandello deve disporsi a immaginarselo come in un’ideale rappresentazione teatrale e solo cosí (come del resto vale per ogni vera opera teatrale) può capirne anche lo speciale linguaggio.

L’opera teatrale pirandelliana ha un suo sviluppo, che deve essere però valutato anzitutto nel suo insieme, nella sua unità multiforme di tragica espressione della condizione dell’esistenza, continuazione e piú sicura realizzazione degli stessi motivi di base che già si esprimevano nella novellistica e che ora nel teatro hanno trovato la loro misura piú congeniale, proiettandosi drammaticamente dalla narrazione di casi e di personaggi alla rappresentazione che i personaggi fanno di se stessi, nel loro agire irrequieto, nel loro aggirarsi sulla scena, nel loro tormentoso ragionare, nella loro vita teatrale: unica vita concessa a personaggi che hanno perduto altrimenti ogni unità psicologica e morale di vere e proprie «persone» quali apparivano nella letteratura ottocentesca, in un mondo che la crisi del decadentismo ha sconvolto e frantumato in tutte le sue dimensioni e sia nella possibilità di comunicazione fra gli individui sia nella stessa unità individuale rivelata impossibile, sostituita dalla caotica e tormentata varietà degli istinti, delle spinte del subconscio, dei momenti diversi di un’esistenza effimera e casuale.

Nel teatro i personaggi pirandelliani vivono la loro condizione di atroce tortura, prendendo coscienza della loro sorte di solitudine assoluta e di assoluta interiore disgregazione, mentre si dibattono nella ricerca tormentosa di una vera consistenza, di una salvezza impossibile dal caos e dal flusso incessante e inafferabile della vita esterna e interna.

Tale è la condizione fondamentale e costante dei personaggi e della concezione tragica di Pirandello, e tuttavia, come dicevamo, si possono scandire alcune fasi di sviluppo del teatro pirandelliano.

Dopo le commedie (in alcune delle quali può cogliersi un certo elemento di luminosità e di parziale trionfo dei valori di bontà e di libertà vittoriosa: il caso di Pensaci, Giacomino, e di Liolà, piena di nostalgia per il mondo naturale e semplice della campagna siciliana), c’è una lunga fase in cui il teatro pirandelliano conquista la sua dimensione centrale e fondamentale passando da una rappresentazione indiretta della condizione umana nella configurazione di personaggi scissi, disgregati, frantumati, alla rappresentazione diretta della tragedia del personaggio che soffre e riassume in sé, come personaggio singolo e come espressione simbolica di valore generale, quella tragica condizione di pena e di crisi.

Tale passaggio si realizza nelle numerose commedie del periodo della maturità pirandelliana, fino ai capolavori di Enrico IV e dei Sei personaggi in cerca d’autore (fra il 1921 e il 1924).

Nell’Enrico IV il protagonista, che è stato ferito alla testa a tradimento da un rivale in amore, durante una storica mascherata (in cui egli era appunto mascherato da Enrico IV, il medievale imperatore tedesco in lotta con il papa Gregorio VII), vive in uno stato di lucida pazzia con la quale (in una villa trasformata in castello medievale e dove quanti vivono con lui o si recano da lui sono pure mascherati in personaggi della vicenda medievale) egli cerca di crearsi una forma di vita fermata nelle condizioni in cui subí il trauma della ferita e della delusione (il tradimento dell’amico e della donna amata) in cui, disperatamente solo e lucidissimo, consapevole dell’illusorietà della parte che recita, egli vuole fissare la sua personalità, la sua «maschera», e sfuggire cosí al tormento della vita reale, essa stessa illusione piú penosa e vana della stessa tragica farsa cui gli altri collaborano credendo alla sua pazzia. Ma nella parte finale, quando ha intorno a sé i piú diretti responsabili della sua vicenda, egli improvvisamente si ribella, accusa e uccide il suo rivale, getta la maschera, per poi, nuovamente deluso e atterrito dalla vita reale in cui si è momentaneamente riportato, rinchiudersi di nuovo e per sempre nella sua figura di folle e nella sua maschera tragica, convinto com’è della impossibilità di tornare alla vita, di sfuggire veramente alla legge tremenda della incomunicabilità, della solitudine e della frantumazione interiore celata solo dalla parvenza di una maschera.

Ancor piú sconvolgente e artisticamente nuovissimo è il dramma dei Sei personaggi in cerca d’autore, in cui lo scontro tra «vita» e «forma» è rappresentato nella geniale invenzione di una rappresentazione teatrale che vien costruita liberamente (ma in realtà con una interna ferrea necessità) sulla scena da parte di sei personaggi che vogliono disperatamente avere nel teatro e nelle sue forme artistiche eterne quella vita che nei loro miserevoli casi reali non sono riusciti ad avere.

Sarà un tentativo inane e disperato, ma intanto, nel loro inquieto e tormentoso gestire e parlare, nel loro drammatico bisogno di confessione dei propri casi e nel loro disgusto della vita pratica, essi vivono momentaneamente sulla scena il loro destino di esseri disgregati, incapaci di comunicazione, disperatamente soli.

Con questa eccezionale commedia in cui il teatro (un teatro nel teatro, un dramma creato dagli stessi personaggi in cerca di un autore che dia organicità e consistenza ai loro casi) diviene strumento e simbolo della stessa commedia tragica della vita, il Pirandello raggiungeva insieme la piú alta punta della sua visione drammatica e la novità piú dirompente della sua arte teatrale, ormai cosí lontana da ogni precedente forma del teatro, di tipo naturalistico o tradizionale.

Su questa direzione lo scrittore costruisce ancora commedie, ma piú stanche e cerebrali (Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto), piú ammirevoli per la nuova tecnica che non per condensata forza poetica.

Si aprirà cosí l’ultima fase del teatro pirandelliano che – mentre indubbiamente a suo modo asseconda e rafforza certa nuova tematica e tecnica della letteratura del tempo (soprattutto nelle forme del movimento «surrealista» che cercava nel sogno e nel giuoco disinteressato del pensiero una superiore realtà) e risponde a un sincero bisogno dello scrittore – rappresenta però un declino della sua forza poetica, una deviazione dal suo nucleo drammatico piú genuino, che rimane quello di una visione disperata, negativa, pessimistica, e a cui ora Pirandello tendeva a trovare possibili evasioni creando miti simbolici liberatori e salvatori.

Di fatto i tentativi di offrire evasioni ai suoi personaggi dal groviglio tormentoso in cui si dibattono sono sinceri e spesso suggestivi, ma vaghi e incerti, perché il Pirandello, profondo interprete di una crisi profonda, non aveva veri valori positivi su cui fondare quei tentativi che spesso si risolvono – anche nella trama delle nuove commedie – nel pratico riconoscimento della loro inanità. Cosí in Lazzaro (1928) la proposta di una specie di fede panteistica di comunione dell’uomo con la natura cui il protagonista si apre, una volta che ha riconosciuto menzognera la fede religiosa confessionale, è poi smentita o smascherata dallo stesso protagonista che non può non ritornare alla sua professione sacerdotale, non può non riprendere la sua maschera. E nella Colonia felice (1927) un’utopia di felicità sociale e di vita del lavoro non sfruttato viene smontata dalla rivelazione della sua pratica impossibilità, quando la «colonia felice» cede alla corruzione portata da abitanti del mondo capitalistico borghese e la solitaria superstite della «colonia felice» rimane, pur nella persistente sua fede sociale, sola, inane, solo individualisticamente salva, contro lo stesso fondamentale mito di una necessaria socialità della felicità che Pirandello tentava di costruire in questa commedia.

Cosí gli ultimi drammi, singolarmente macchinosi e lontani dalla nervosa secchezza di quelli piú centrali e sicuri, finiscono per meglio rivelare la natura velleitaria e indecisa di questa spinta a miti e simboli liberatori e positivi, anche quando, come dicevo, essi sono indubbiamente tutt’altro che privi di una certa loro suggestione poetica. Tanto che, non a caso, il finale del massimo e ultimo tentativo di questa direzione, I giganti della montagna, iniziato nel 1934, rimase incompiuto e lasciato affidato a poche e sommarie indicazioni che puntavano – dopo aver teso, nel resto del dramma, ad esaltare la libertà della fantasia, del sogno, della poesia – sulla impossibilità di una poesia cosí sognante e disimpegnata dalla vita e dalla sua drammatica sostanza.

Pirandello rimane un poeta di crisi, il rappresentante originalissimo della caduta dei vecchi valori, della disgregazione e della miseria della persona e della condizione umana, non ha veri nuovi valori da offrire e da incarnare nei suoi drammi che rimangono vivi e validi solo nella misura in cui, anche gli ultimi, riproducono ed esprimono la sua sostanziale visione pessimistica illuminata solo da una compassione dolente, non da un vero accento ottimistico e positivo.

Non dovrà infine dimenticarsi che, accanto al grande teatro pirandelliano, la crisi esistenziale del decadentismo trovò una minore, ma pure interessante espressione, in quel teatro del «grottesco» che sottolineava, in toni minori e piú superficiali, il contrasto fra le apparenze convenzionali e la dolorosa realtà umana, fra la «maschera» e il «volto», che è il titolo appunto di una commedia (La maschera e il volto, 1916) di Luigi Chiarelli (1884-1947), la divisione dell’uomo fra ragione e passioni istintive e indomabili espressa soprattutto nei drammi (di cui il piú celebre è Marionette, che passione!, del 1918) del siciliano Pier Maria Rosso di San Secondo (1887-1956).

7. I crepuscolari

Nella storia del decadentismo italiano si inscrivono anche, ad un livello di maturazione del decadentismo piú arricchito di esperienze europee e con aperture importanti verso la successiva e piú matura civiltà letteraria, due movimenti poetici che diversamente riprendono e superano le esperienze rappresentate dalla poesia pascoliana e dannunziana.

Si tratta del gruppo dei crepuscolari e di quello dei futuristi, il primo piú riservato e alieno da proclamazioni clamorose della propria novità (e in realtà piú fertile di risultati poetici e di sensibilissimi suggerimenti alla poesia successiva), il secondo piú aggressivo, polemico, nella sua risoluta lotta contro il passato e nella propaganda combattiva e fragorosa delle sue vistose innovazioni tecniche e della sua visione moderna della poesia e della vita, anche se piú povero di opere resistenti e adeguate alla proclamata originalità dei programmi nei quali soprattutto consiste la forza d’urto di questo movimento.

La posizione e la novità dei crepuscolari (cosí chiamati da un critico, il Borgese, in quanto essi gli sembravano rappresentare il crepuscolo della grande giornata di poesia vissuta dalla letteratura italiana fra l’opera di Foscolo, Leopardi, Manzoni e quella di Carducci, D’Annunzio e Pascoli) sono costituite da una volontà di poesia che non ambisce a grandi pretese e anzi, avvertendo la crisi dei grandi ideali ottocenteschi, si impegna nel rilievo poetico della piú minuta e grigia realtà, rifiutando ogni elemento di eccezione (e cosí contrapponendosi al sontuoso dannunzianesimo), cercando le «piccole cose» e magari le «buone cose di pessimo gusto», sviluppando insieme, in un’assai complessa utilizzazione di eredità italiana e di lezioni della poesia decadente francese, certi toni piú teneri e stanchi del D’Annunzio del Poema paradisiaco e soprattutto la lezione pascoliana della poesia delle cose piú quotidiane e della poetica del fanciullino, insaporita però da accenti nuovi, fra sentimentalismo e ironia, e da un piú moderno gusto di una poesia prosastica «scritta col lapis» (come dirà nel titolo di un volume di versi uno dei crepuscolari, Marino Moretti), nata dall’attrito di una sensibilità smorzata e però tutt’altro che veramente povera e banale con una realtà oggettiva e psicologica comune e dimessa, ed espressa in una forma poetica discorsiva, quasi volutamente sciatta.

Nel loro mondo fra malinconico e ironico, che sottolinea una effettiva crisi esistenziale e storica, un disagio morale di personalità che rifiutano facili e false prospettive di robustezza virile e vivono stati d’animo di stanchezza, di sfiducia, di umiltà e indifferenza dolente, di vuoto morale, si staccano figure e situazioni ben caratteristiche della loro poetica (figure di suonatori di organetto nella noia delle domeniche, personaggi umani in interni piccoloborghesi pieni di oggetti di vecchio gusto, monasteri sonnolenti e corsie di ospedali) e si muove una specie di canto sottovoce e in sordina su di uno sfondo monotono e senza colori vistosi. Tutto ciò poteva divenire una maniera e una specie di retorica dell’antiretorica, ma pure è innegabile che in questa poesia prosastica si affermava e si esprimeva in generale una poeticità piena di premesse per una nuova poesia e tale poeticità, tale atmosfera poetica trovava pur condensazione in risultati poetici che salgono dalle forme piú tenui e modeste dei volumi di liriche del ricordato Marino Moretti (nato a Cesenatico, 1885, poi attivo soprattutto come narratore), di Fausto Maria Martini (1886-1931), all’opera piú intensa e sofferta del romano Sergio Corazzini (1887-1907), che bruciò la sua brevissima esistenza stroncato dalla tisi in una poesia di forte schiettezza e di intensa liricità, fino ai risultati piú complessi di Guido Gozzano, la cui personalità supera decisamente quella di tutti gli altri crepuscolari, mentre il crepuscolarismo si rifletteva in aspetti parziali della lirica di un Palazzeschi e si mescolava ad un acceso lusso di immagini di Corrado Govoni.

Guido Gozzano (nato a Torino nel 1883 e morto ad Aglié Canavese nel 1916 dopo una lunga malattia tubercolare) visse un’esperienza umana e letteraria che ben si inquadra nel generale clima crepuscolare, nella situazione della crisi dei vecchi valori positivi, delle fedi e degli ideali ottocenteschi, ma piú originalmente si precisa in una prospettiva oscillante fra un fondo amaro e pessimistico di delusione, opposto, fra dolore e ironia, ad ogni orgoglio umanistico e ad ogni illusione di dominio e di possesso sicuro della vita, il vagheggiamento nostalgico di un mondo per sempre passato, fatto di sentimenti solidi e ingenui, compiaciuto delle sue «buone cose di pessimo gusto», e un’aspirazione alla vita, alla freschezza e sanità delle cose e delle impressioni reali di cui il poeta pur avverte acutamente il carattere effimero, la destinazione alla caducità e alla morte.

A tale mondo interiore piú ricco di quello degli altri crepuscolari Gozzano seppe dare (pur con frequenti cadute in forme piú banali e frettolose) un’espressione inconfondibilmente personale che si avvale di un linguaggio tanto ispirato quanto abilissimo e sapiente nella dosatura di toni ironici, amari, patetici, liricamente impressionistici, di brevi condensazioni epigrammatiche, di cadenze suggestive e blande, di impeti realistici, di colori smorti e patinati e di tinte vive e freschissime.

Ne risultano – al di là delle prose di memoria, di viaggio, di vere e proprie fiabe fra ingenue e ironiche – poesie che, raccolte in due volumi di liriche (La via del rifugio e I colloqui), variamente consolidano il mondo interiore dello scrittore, ora disponendosi in rappresentazioni piú dirette della sua esperienza autobiografica portata fino ad un tono di disincantata e pur struggente amarezza (come avviene ad esempio in Totò Merumeni, personaggio chiaramente autobiografico), ora, e piú felicemente, creando veri e propri poemetti narrativi, in cui un’autentica forza costruttiva riemerge, al di là delle vecchie forme costruttive e tradizionali nostalgico-ironiche: sono lontane e tenui vicende di vita ottocentesca e borghese (il caso de L’amica di nonna Speranza), amori sventurati e innocenti (il caso di Paolo e Virginia) o delineazioni equilibrate e armoniche di situazioni sentimentali precisamente ambientate in un paesaggio impressionistico e suggestivo nella sua concretezza e nel suo alone di luminosità sfumata e intrisa nelle cose, come avviene in componimenti quali Le due strade (un breve incontro fra una donna che sfiorisce e una giovinetta colma di vita) o La signorina Felicita, che forse meglio di ogni altra di queste liriche sintetizza, entro la saldezza del racconto lirico, le qualità piú tipiche della poesia gozzaniana, gli elementi della sua esperienza e prospettiva umana (quel desiderio di felicità in un’impossibile banalità di vita comune e borghese e quella consapevolezza appunto della sua assurdità), i motivi tipici della poesia crepuscolare originalmente vissuti (un sentimento vago e ambiguo di amore che non si precisa, l’atmosfera dimessa della soffitta-altana piena di vecchi oggetti abbandonati, la figura stessa della signorina campagnola modesta e impacciata e pur ricca di una sua schietta poeticità, la luce incerta del tramonto, in cui brillano quasi timidamente le prime stelle).

Veramente con Gozzano il crepuscolarismo superava i suoi aspetti piú programmatici, li realizzava in una poesia che dal seno del decadentismo apriva possibilità nuove (e non perciò una vera via centrale e unica) alla poesia italiana novecentesca.

8. Il futurismo

L’altro gruppo letterario che si pone, con tanto maggiore aggressività e volontà di assoluto rinnovamento, di assoluta rottura con la tradizione in ogni suo aspetto, morale ed estetico, è quello dei futuristi, la cui stessa denominazione polemica vuol appunto indicare una prospettiva violentemente anti-passatista, volta al «futuro» di cui l’artista dev’essere già nel presente l’affermatore e il banditore. Vicini in certo senso al D’Annunzio per la forte mescolanza di vita e di arte, per la ricerca clamorosa dell’effetto di novità, i futuristi rifiutano però la sontuosa raffinatezza ornamentale e il mondo sensuale musicale dannunziani e puntano (sia in letteratura, sia nelle arti figurative in cui il movimento futurista ebbe i suoi rappresentanti piú geniali e veramente rinnovatori: il pittore e scultore Boccioni, l’architetto Sant’Elia) su di una visione della vita impetuosamente irrazionalistica adeguata allo scoppio della civiltà della macchina, della velocità, dell’azione e dell’attivismo piú sfrenato e cercano di esaltarne la nuova bellezza (Marinetti dirà che è piú bella un’automobile che la statua greca della Vittoria di Samotracia) con una tecnica febbrilmente spezzata, che abolisce le misure del verso e del discorso tradizionale con associazioni fulminee di parole-immagini violente, private di ogni sentimentalismo, di ogni decoro ornamentale, fino all’uso di quelle «parole in libertà» che esasperano la simultaneità (di contro all’ordine di successione e di concatenamento sintattico), l’esplosiva immediatezza delle sensazioni colte e gettate nella pagina anche mediante procedimenti grafici nuovi, nell’incandescente caos di una vita sciolta da ogni ordine razionale, sentimentale, morale, diversificandosi dal tipo di esplorazione nel subconscio e nell’io disgregato e lacerato che è proprio di altri aspetti del decadentismo.

In tale prospettiva di una letteratura come espressione adeguata di una nuova visione del mondo febbrilmente mobile, in continuo e dinamico divenire, il futurismo riprendeva (al di là del decadentismo italiano) succhi, fermenti, esempi del grande decadentismo francese entro il quale si era formata la personalità del suo caposcuola, quel Filippo Tommaso Marinetti (nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876 e morto nel 1942) che aveva passato la prima giovinezza in Francia (e aveva scritto in francese opere fra le sue piú aggressive e interessanti), portando poi avanti la sua attività di scrittore, di banditore e di propagandista clamoroso e abile della poesia futurista in Italia, dove era venuto sviluppando la sua irrequieta e confusa prospettiva rinnovatrice caricandola di frenetici miti di attivismo nazionalistico, imperialistico, bellicista (fortemente attivi nelle origini poi del fascismo), ed esponendola programmaticamente nei Manifesti del futurismo (intorno al 1910).

Questi manifesti, a ben vedere, valgono piú delle sue opere poetiche (come di quelle degli altri futuristi incapaci come lui di vere realizzazioni poetiche) e certo segnano un momento notevole nella rottura della letteratura tradizionale, come del gusto accademico, e assecondano, anche in campo europeo, l’affermarsi di movimenti di avanguardia letteraria che possono giungere sino ai grandi movimenti della nuova letteratura rivoluzionaria russa, ai movimenti del dadaismo e del surrealismo.

Ma proprio il paragone con quelle che sono le vere e piú feconde avanguardie novecentesche fa avvertire quanto di limitato, di confuso, di velleitario vi fosse nel futurismo italiano, incapace di proporre esempi autentici di nuova poesia e privo di quegli elementi veramente rivoluzionari anche in campo sociale e politico, che giustificarono storicamente la novità poetica di un poeta come il sovietico Majakovskij, e che nel caso di Marinetti e dei suoi compagni furono invece surrogati, come già dicevamo, da elementi reazionari, imperialistici, fascisti.

Cosí la tempesta futurista rimase piú clamorosa che veramente feconda, mantenne ancora caratteri di estetismo e di sensualismo tipici del decadentismo piú «fine secolo», anche se variamente apportò pure innegabili suggerimenti di novità sviluppati entro l’opera di piú consistenti e complessi scrittori del Novecento e contribuí ad un certo generale rinnovamento dello stile e delle tecniche letterarie e teatrali.